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minore

Malattia mentale: può determinare automaticamente l’inidoneità genitoriale?

30 Dicembre 2022 Da Staff Lascia un commento

Malattia mentale: essere affetti da malattia mentale può automaticamente determinare una
inidoneità genitoriale tale da condurre alla dichiarazione di adottabilità del minore?
Ad affrontare tale quesito giuridico è la Suprema Corte di Cassazione che, con
sentenza n. 21992 del 12 luglio del 2022, mette in rilievo come l’adozione del minore
rappresenti una misura eccezionale a carattere residuale.
Ed in particolare, la Corte di Cassazione precisa come sia possibile ricorrere a tale
strumento solo ove sia riscontrato l’effettivo stato di abbandono a causa dell’assenza
di assistenza morale e materiale ex art 147 c.c. da parte dei genitori o di altri parenti tenuti a
provvedervi.

Il caso

Una bambina nasceva da una breve relazione intercorsa tra una signora ricoverata presso un centro di salute mentale ed un paziente psichiatrico della medesima struttura. Quest’ultimo, successivamente, non procedeva a riconoscere la figlia.
Il Tribunale per i Minorenni collocava la diade mamma/bambina all’interno di una
 comunità, disponendo al contempo che venissero monitorate le capacità genitoriali
della madre. Successivamente, veniva dichiarato dal Tribunale lo stato di adottabilità della minore a
causa delle condizioni di abbandono in cui versava la figlia per l’incapacità della madre di fornirle le adeguate cure materiali e psicologiche. Tale sentenza veniva impugnata dalla madre e dalla nonna materna, le quali ricorrevano in appello chiedendo la revoca dello stato di adottabilità e l’affidamento
della minore alla madre o, in subordine, alla nonna.

La Corte di Appello rigettava le doglianze delle predette adducendo la compromissione delle capacità cognitive della madre, non effettivamente sintonizzata con le esigenze della figlia. La Corte di Appello, al contempo, sottolineava l’incapacità della nonna materna di esercitare la funzione genitoriale in luogo della figlia a causa del rapporto conflittuale intercorrente tra madre e figlia, oltre che per i disturbi
psicologici di cui anch’ella era affetta.

La decisione della Suprema Corte

Avverso questa pronuncia, sia la madre che la nonna materna, proponevano due
distinti ricorsi per Cassazione a seguito dei quali veniva dalla Suprema Corte affrontava la questione che segue. Essere affetti da una determinata malattia mentale può automaticamente implicare una inidoneità genitoriale?
Ebbene, gli Ermellini rispondono di no a tale quesito accogliendo i motivi di impugnazione delle ricorrenti e rinviando alla Corte d’Appello.
A fondamento di tale decisione la Suprema Corte sottolinea come essere affetti da una malattia mentale non possa automaticamente determinare una inidoneità genitoriale tale da condurre alla dichiarazione dello stato di adottabilità del minore. In tal caso, infatti, è doveroso porre in essere un adeguato approfondimento delle capacità genitoriali del genitore di riferimento al fine di valutare che sia in grado di garantire alla prole una sana ed armoniosa crescita.
Ed ancora, deve verificarsi concretamente se lo stato di abbandono in cui versi in quel momento il minore sia definitivo o solo transitorio tenendo a mente che il primario diritto del minore, che gli deve essere garantito, è quello di crescere all’interno della propria famiglia d’origine.

Extrema ratio

Secondo la Suprema Corte, la possibilità che si giunga a dichiararne lo stato di adottabilità deve essere sempre considerata quale extrema ratio da applicarsi solo in caso di irreversibile venir meno delle capacità genitoriali dei genitori e dei relativi familiari (entro il quarto grado) eventualmente disponibili a prendersi cura del minore.
Di conseguenza, lo stato di adottabilità non può essere in ogni caso dichiarato in presenza dei suddetti presupposti, dovendo invece ravvisarsi evidenti carenze nelle
capacità genitoriali e criticità nella salute psicologica dei genitori, unitamente a comportamenti che determinino un effettivo pregiudizio nella crescita del minore.

Potrebbe anche interessarti: “In tema di affidamento, il criterio fondamentale è costituito dall’esclusivo interesse morale e materiale della prole”. Leggi qui. 

Archiviato in:I nostri articoli, Legge e Giurisprudenza Contrassegnato con: adottabilità, genitori, idoneità genitoriale, malattia, minore, minori, superiore interesse

Mancato ascolto del minore: violazione del contraddittorio

1 Aprile 2022 Da Staff Lascia un commento

Il mancato ascolto del minore infra-dodicenne  circa il genitore con il quale vorrebbe vivere costituisce violazione del contraddittorio.

A stabilire il superiore principio di diritto è la Cassazione con l’ordinanza n. 7262 del 4 marzo 2022.

Ed in particolare è ormai noto che nell’ambito del giudizio di affidamento e di collocamento, il minore ha il diritto di essere sentito.

Altrimenti,  in caso di assenza di interpello senza una valida ragione, emerge una violazione del fondamentale principio processualistico de contraddittorio.

Il caso

Una madre presentava ricorso in Cassazione lamentando che le figlie minori erano state affidate al padre e collocate presso l’abitazione dei nonni senza però che le predette fossero state ascoltate.

L’ascolto del minore

La Suprema Corte accoglie il ricorso della donna. Il provvedimento della Cassazione si basa sull’assunto che il minore abbia il diritto ad essere ascoltato. Ciò perché i minori sono portatori di interessi diversi da quelli dei genitori, e talvolta opposti, nei procedimenti giudiziari che li vedono coinvolti.

Dunque il minore costituisce parte sostanziale in tali giudizi, come nel caso di un procedimento sull’affidamento e sul diritto di visita.

Nell’ambito di tali procedimenti la tutela dell’interesse del soggetto non ancora maggiorenne viene realizzata attraverso la previsione di ascolto, la cui omissione, in assenza di espressa motivazione sul mancato discernimento, determina violazione del contraddittorio.

Il provvedimento adottato in tale violazione è quindi da ritenersi nullo.

Il superiore interesse del minore

Il giudice della separazione e del divorzio, nell’adozione delle decisioni che riguardano l’affidamento e il collocamento, deve conformarsi al criterio primario dall’esclusivo interesse morale e materiale della prole ex artt. 337 bis cod. civ. e art. 6 della legge n. 898/1970.

Il giudice deve privilegiare il genitore che sia maggiormente tutelante e adatto a ridurre al minimo i danni causati dalla disgregazione del nucleo familiare.

L’individuazione di tale genitore è frutto di un giudizio prognostico relativo alla capacità dei genitori di occuparsi della crescita e dell’educazione della prole.

Davanti, quindi, alla decisione del giudice di derogare al regime ordinario dell’affido condiviso, frutto del rispetto del diritto della bigenitorialità, il giudice deve formulare il giudizio prognostico e ascoltare il minore infradodicenne in merito a quale sia il genitore con cui preferisce vivere prevalentemente.

il mancato ascolto quindi, alla luce di quanto sopra, renderebbe nullo il provvedimento.

Potrebbe anche interessarti “L’affidamento condiviso non presuppone la frequentazione paritaria”. Leggi qui. 

Archiviato in:I nostri articoli, Legge e Giurisprudenza Contrassegnato con: collocamento minori, collocamento presso il padre, collocamento presso la madre, divorzio, minore, separazione

Stato di abbandono: il minore può essere dichiarato adottabile

2 Marzo 2020 Da Staff Lascia un commento

In caso di stato di abbandono di un minore la Corte di Cassazione ha stabilito che “sussiste lo stato di abbandono non solo nelle ipotesi di rifiuto intenzionale dell’adempimento dei doveri genitoriali, ma altresì nei casi in cui la situazione familiare sia tale da compromettere in modo grave lo sviluppo psico fisico del bambino, in relazione al suo vissuto, alle sue caratteristiche fisiche e psicologiche, alla sua età e al suo grado di sviluppo” (Cass. civ. ord. n. 32412/2019).

Il fatto

La Corte di Appello, in conformità con la decisione di primo grado, dichiarava lo stato di adottabilità di un minore. In particolare i giudici aditi sostenevano che il minore non godesse di un’adeguata assistenza morale e materiale da parte della madre. Inoltre era emerso che il minore soffrisse di disturbo del linguaggio e la madre era incapace di affrontare il problema. 

Per tali motivi, il bambino veniva collocato in una casa famiglia. In tale contesto si assisteva ad un repentino miglioramento delle sue condizioni psico fisiche. 

La donna, dunque, proponeva ricorso in Cassazione avverso detta decisione, lamentando la mancata valutazione del preminente diritto del minore di vivere con i genitori.

Cosa si intende per adottabilità?

L’art. 1 della l. 184/1983 sancisce il diritto del minore a crescere nella propria famiglia di origine. Ciò comporta che il giudice di merito deve espletare sempre, in via preventiva,  interventi a  sostegno della genitorialità al fine di rimuovere eventuali situazioni pregiudizievoli.  Solo qualora risulti impossibile il pieno recupero delle capacità genitoriali può considerarsi legittima la dichiarazione dello stato di adottabilità. 

A tal proposito gli Ermellini chiariscono che si ha stato di abbandono quando vi è rifiuto volontario dell’adempimento dei doveri genitoriali. Ma non solo. Anche nei casi in cui la situazione familiare sia pregiudizievole per lo sviluppo psico fisico del minore. Pertanto in assenza di concreti riscontri a nulla rileva la volontà verbale dei genitori di prendersi cura dei figli.

La decisione 

Tornando al caso di specie, la Corte di Appello aveva sottoposto al vaglio la capacità genitoriale della donna (stante l’assenza del padre che non aveva riconosciuto il figlio). La Corte era pervenuta ad un giudizio negativo circa le capacità della stessa ad accudire il minore, considerate le problematiche circostanze emerse in corso di istruttoria.

Pertanto la Corte di Cassazione riteneva inammissibile il ricorso e confermava lo stato di adottabilità del minore. 

Potrebbe anche interessarti “Famiglia di origine: il minore ha diritto a mantenere con la famiglia di origine rapporti significativi” leggi qui. 

 

 

 

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Affidamento figlio: il genitore lo può riottenere se dimostra di avere abbandonato la vita trasgressiva.

10 Ottobre 2019 Da Staff Lascia un commento

Il genitore può riottenere l’affidamento del figlio se dimostra di avere messo da parte lo stile di vita trasgressivo, fatto di alcool e droga. Infatti il reale cambiamento gli consentono di potere riottenere l’affidamento. A stabilire il predetto principio è stata la Suprema Corte, I sez. civile, con la sentenza n. 24790 depositata il 3 ottobre scorso.

Il caso

Un padre aveva perso l’affidamento del figlio minore a causa delle condotte contrarie ai dovevi di un genitore. In particolare lo stile di vita trasgressivo condotto, causato dall’abuso di alcool e droga, lo rendevano inidoneo al proprio ruolo. Tale circostanza induceva il Tribunale, a tutela del minore, a disporne temporaneamente l’affidamento ad altra famiglia. Veniva dichiarato, altresì, lo stato di adottabilità del ragazzino.

Il padre, presa coscienza e consapevolezza di quanto stava accadendo, impugnava innanzi la Corte di Appello competente il provvedimento che disponeva lo stato di adottabilità del figlio.

La Corte di Appello riconoscendo concretezza agli elementi forniti dal padre revocava lo stato di adottabilità del minore. L’Ecc.ma Corte ammetteva che i progressi posti in essere dall’uomo erano tali da consentire al figlio di fare rientro a casa.

In particolare il ricorrente dimostrava di avere adeguata capacità genitoriale e di essere in grado di supportare il figlio. Tutto ciò grazie al superamento delle problematicità legate all’abuso di alcool e stupefacenti.

La Corte di Appello andava oltre.  Affermava  che la nuova situazione non poteva essere messa in discussione dalla stabilizzazione del minore presso la famiglia affidataria. Neppure i possibili pregiudizi con il rientro nella famiglia di origine potevano avere prevalenza.

Il tutore ricorreva in Cassazione

Il Tutore ricorreva in Cassazione lamentando che il provvedimento adottato dalla Corte fosse in contrasto con l’interesse del minore. In particolare il predetto sosteneva il diritto del fanciullo alla continuità affettiva con la famiglia affidataria.

La Suprema Corte di Cassazione confermava la valutazione effettuata dal Giudice di secondo grado. Per tale ragione, pertanto, il ricorso al Giudice delle leggi si rivelava inutile. Gli Ermellini ribadivano il diritto del padre a riavere con sé il figlio. Infatti l’uomo aveva dato prova di potersene occupare sotto il profilo economico ed affettivo.  L’elemento più importante della vicenda è stata la capacità del padre di superare le problematiche legate alle dipendenze. Grande rilievo ha avuto anche l’atteggiamento positivo manifestato dall’uomo dopo il collocamento presso la famiglia affidataria.

I sopra descritti elementi hanno reso fondato il giudizio in merito alla recuperata capacità genitoriale. Ciò ha correttamente comportato la revoca dello stato di adottabilità del figlio e il rientro graduale presso la famiglia di origine.

Può interessarti anche “Il superiore interesse del minore nel procedimento per riconoscimento del figlio: le linee guida della Cassazione in Cass. I sez. Civ. Sent. n. 17762/2017”. Leggi qui.

 

 

 

 

 

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Diritto alla bigenitorialità: non può spingersi oltre il rifiuto del minore di incontrare il genitore non collocatario

13 Settembre 2019 Da Studio Legale Arcoleo Lascia un commento

Il diritto alla bigenitorialità non può spingersi oltre il rifiuto del minore alla frequentazione del genitore non collocatario, a stabilirlo è la Suprema Corte di Cassazione con l’ordinanza del 23 aprile scorso n. 11170

 

Non di rado uno dei genitori si trova avanti il netto rifiuto di un figlio ad incontrarlo. Pertanto capita spesso che i Giudici si trovino ad decidere su richieste di tutela al diritto di frequentazione con il figlio.

Ma fino a che punto può spingersi il potere del Giudice? Si può davvero imporre ad un minore di incontrare il genitore con il quale non convive stabilmente? A dare la soluzione a tale pungente quesito è l’Ecc.ma Corte di Cassazione, Sez. 1, con l’ordinanza del 23.04.2019 n.1170.

Il caso attenzionato dalla Suprema Corte riguardava un padre il quale chiedeva al Tribunale di ottenere, oltre alla modifica delle condizioni economiche e di mantenimento, l’affidamento congiunto della figlia sedicenne.

Il Tribunale, preso atto del rifiuto della figlia di volere intrattenere rapporti con il padre nonché dell’esito della CTU rigettava la domanda. Anche la Corte di Appello adita, confermava quando statuito dal giudice di prima istanza pertanto il padre, per vedere tutelato il proprio diritto alla bigenitorialità ricorreva in Cassazione.

La Corte di Cassazione respingeva definitivamente il ricorso del padre

Gli Ermellini investiti della questione rigettavano il ricorso del padre, allineandosi di fatto con l’orientamento assunto dai giudici di merito. In particolare la Corte di Cassazione sottolineava che il rapporto affettivo, per natura incoercibile, non può essere imposto. Pertanto, conclusivamente, se un figlio non intente intrattenere un rapporto stabile con il genitore non collocatario, questo non può essere obbligato.

La questione

la domanda sorge spontanea: alla luce della superiore soluzione a favore di chi è stato previsto il diritto alla bigenitorialità? E’ il diritto di ciascun genitore di essere presente in maniera significativa nella vita del figlio? Ovvero il diritto del figlio a mantenere (o non mantenere) un rapporto continuativo con ciascuno dei genitori?

Nell’ordinamento giuridico italiano il diritto alla bigenitorialità è garantito e tutelato dalla legge 54/2006 sull’affido condiviso, nonché dal d.lgs. 154/2013. La superiore normativa si caratterizza per il ruolo centrale riconosciuto al minore e pertanto il bene tutelato è, in primis, il diritto del minore. In particolare il minore ha diritto a mantenere rapporti equilibrati e significativi con entrambi i genitori, nonché di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale e materiale da entrambi. 

Da tale assioma deriva la logica conseguenza che, salvo le ipotesi in cui ad ostacolare gli incontri tra genitore e figlio sia il coniuge, il figlio può rifiutarsi di frequentare l’altro genitore. La Suprema Corte stabilisce che la bigenitorialità può essere esercitata anche in accezione negativa. Ciò significa che il minore, con capacita di discernimento, ha diritto a “non mantenere” con un genitore un rapporto continuativo. Con la pronuncia in oggetto, quindi, gli Ermellini hanno messo in luce come il principio alla bigenitorialità sia posto a tutela, innanzitutto, del figlio e non solo dei genitori.

Osservazioni

Il diritto di famiglia, in continua evoluzione, spesso dai confini poco chiari e marcati rende il compito dei giudici ancora più difficile. Tale ruolo diviene particolarmente arduo quando nel caso concreto emerge l’esistenza di una grave conflittualità tra i genitori. Infatti spesso i genitori tendono a far prevalere i propri interessi a discapito di quelli dei figli. Pertanto il giudicante dovrà orientare la propria decisione tenendo in alta considerazione l’interesse morale del minore. Dovrà, altresì, valutare la capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione di fatto causata dalla disgregazione del nucleo. Per fare ciò il giudicante, terrà conto del modo in cui i genitori hanno in passato svolto i propri compiti verso i figli. 

Potrebbe anche interessarti: “Il superiore interesse del minore nel procedimento per riconoscimento del figlio: le linee guida della Cassazione in Cass. I Civ. Sent. n. 17762/2017” Leggi qui

 

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Trasferimento all’estero del minore: al Tribunale di quale luogo la giurisdizione?

19 Maggio 2019 Da Studio Legale Arcoleo Lascia un commento

Se il trasferimento all’estero del minore è “lecito” (cioè autorizzato dall’altro genitore o dal giudice) la giurisdizione va valutata in base alla residenza del minore al momento della domanda.
Quindi se il minore ha residenza all’estero, il Tribunale italiano è privo di giurisdizione e per ogni questione bisognerà rivolgersi al Giudice estero (Cass. S.U. 32359/2018).


In sede di divorzio il Tribunale di Brescia ha autorizzato, in via provvisoria, il trasferimento all’estero di una madre insieme alla figlia. Una volta stabilitasi nel Principato di Monaco però, la donna si è rivolta al locale Tribunale, adducendo abusi sessuali sulla bambina da parte del padre. Ha così ottenuto, con decisione definitiva, che la bambina incontrasse il padre in ambiente protetto solo una volta alla settimana.

Nel frattempo però il Tribunale di Brescia ha revocato la precedente autorizzazione provvisoria di trasferimento all’estero. Ma non solo. Ha anche affidato la bambina in via esclusiva al padre. La donna tuttavia ha ignorato questa decisione, tra l’altro confermata anche in appello. E non ha riportato la bambina in Italia. Per questo ha subito una condanna penale e la sospensione della responsabilità genitoriale.

Se non bastasse, il papà si è anche rivolto al Tribunale per i Minorenni. E, dopo alterne vicende, è riuscito a far dichiarare la decadenza della madre dalla responsabilità genitoriale. Questa infatti aveva arrecato un grave pregiudizio alla figlia privandola della bigenitorialità. La Corte d’Appello ha poi confermato la decisione.

La donna, a questo punto non ha potuto fare altro che ricorrere in Cassazione. Riteneva infatti che il Tribunale per i Minorenni di Brescia fosse privo di giurisdizione, in quanto la residenza abituale della minore era nel Principato Monegasco.

Sul punto si è espressa la Suprema Corte (S.U. 32359/18), rifacendosi al disposto di cui alla L. 101/2015. E ha fatto chiarezza su taluni aspetti che possono verificarsi con riferimento all’affidamento dei minori e la responsabilità genitoriale.

La Cassazione ha ribadito che, in caso di trasferimenti leciti, la giurisdizione segue sempre e comunque il criterio della residenza. Anche quando questa sia stata trasferita (come nel caso in esame) solo temporaneamente.

Infatti la vicinanza del Giudice competente rispetto alla residenza abituale del minore garantirebbe maggiore ponderatezza delle decisioni assunte.

Ovviamente questo vale solo in presenza di trasferimenti cd. leciti.
Viceversa, nel caso in cui un coniuge si trasferisse all’estero senza autorizzazione, rimarrebbe la giurisdizione italiana. Salvo il decorso di un lasso di tempo consistente ed apprezzabile nel quale il minore avrebbe il tempo di radicarsi nel nuovo territorio.

In tal modo il Legislatore ha voluto tutelare le diverse esigenze. Da una parte quelle del genitore al quale viene sottratta la prole. E dall’altra la prole stessa che nel frattempo vive e cresce all’estero stringendo rapporti significativi in quel luogo.

Nel caso in esame non solo siamo di fronte ad un trasferimento autorizzato dal giudice, ma la bambina sembrava essersi adattata perfettamente al nuovo posto. Aveva imparato il francese, si era inserita a scuola e nel nuovo contesto sociale. Inoltre, ascoltata, aveva detto di essere felice di vivere con la mamma e di volere rimanere a vivere nel Principato.

Pertanto la Cassazione ha accolto il ricorso della donna, dichiarando il difetto di giurisdizione del Giudice italiano.

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Gli atti di natura patrimoniale e i minori

11 Gennaio 2019 Da Studio Legale Arcoleo Lascia un commento

I genitori non possono compiere autonomamente alcuni atti di natura patrimoniale in favore dei figli minorenni, è obbligatoria la preventiva autorizzazione del Giudice Tutelare. Di seguito vi spieghiamo come fare e come possiamo aiutarvi.

Facciamo alcuni esempi: i nonni vogliono donare la loro casa al nipote minorenne, riservandosi il diritto di usufrutto finché vivranno. Oppure: si deve vendere il monolocale che i genitori avevano intestato al figlio minorenne, sono solo alcuni casi in cui i genitori non possono agire da soli.

Non basta che i genitori siano d’accordo e che partecipino per conto del figlio all’atto notarile. Serve che il Giudice Tutelare li autorizzi. Perché?

Perché sono atti che comportano l’aumento o la riduzione del patrimonio del minore, e quindi il Giudice Tutelare deve accertarsi che rispondano all’effettivo interesse del minore.

Questi atti, detti di “straordinaria amministrazione” sono elencati all’articolo 320 del codice civile. Si tratta dunque di tutti quei casi in cui si voglia vendere o ipotecare beni del figlio, accettare l’eredità o rinunciarvi , accettare donazioni, stipulare mutui, effettuare transazioni o compromessi, riscuotere capitali. 

Come si procede dunque? Bisogna presentare un ricorso al Giudice Tutelare competente (quello del luogo ove il minore ha sede principale di suoi affari ed interessi) o in alcuni casi al Tribunale. Nel ricorso occorre spiegare le ragioni dell’operazione richiesta, e perché questa sia necessaria, utile e conveniente per il minore.

Per la redazione del ricorso non è necessario l’intervento di un avvocato. Ma alcune situazioni particolarmente delicate e complesse rendono opportuno rivolgersi ad un professionista che possa predisporre in maniera precisa e puntuale il contenuto del ricorso. In questo modo si eviteranno rigetti da parte del Giudice Tutelare, o comunque problemi in sede di stipula dell’atto notarile.

Se l’interesse del minore confligge con quello di genitori il Giudice nominerà un curatore speciale. Per approfondimento clicca qui

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Il maestro di sci e l’atleta minorenne: è reato

30 Ottobre 2018 Da Studio Legale Arcoleo Lascia un commento

Tra maestro e allievo c’è una situazione di oggettiva sudditanza. Se i due hanno rapporti sessuali, anche nell’ambito di una relazione affettiva, il maestro compie reato. E poco importa se l’affetto tra i due è sbocciato prima che si creasse il legame maestro-allievo. (Cass. Pen. Sez. III, 12 ottobre 2017- 3 maggio 2018 n. 18881).

La situazione potrebbe sembrare di per sé romantica: un amore nato sulle piste da sci tra il maestro e un’atleta. Tanto romanticismo viene meno se consideriamo che l’atleta in questione è una ragazza minorenne. In particolare infra-sedicenne, cioè tra i 14 e i 15 anni, prima del compimento dei 16.

I due si sarebbero incontrati quando ancora non erano uno maestro dell’altra. Ne era nata una relazione sentimentale, e i due avevano già avuto rapporti. Dopo qualche tempo, l’uomo e la ragazza si ritrovano a far parte della stessa scuola di sci. Lei come atleta affiliata, lui come addetto all’accompagnamento dei ragazzi  agli  allenamenti e alle trasferte. E la loro relazione continuò anche in questo periodo, così come i rapporti sessuali.

La Suprema Corte, confermando i due precedenti gradi di giudizio, ha ritenuto l’uomo colpevole del reato di atti sessuali con minorenne, ai sensi dell’art. 609 quater, comma 1 n. 2.

La norma spiega come il reato si verifichi in due ipotesi precise: La prima, quando un maggiorenne compie atti sessuali con un minore che non ha ancora compiuto 14 anni (comma 1 n. 1), la seconda quando il minore è infra-sedicenne, e tra lui e il maggiorenne intercorre un rapporto di parentela, o di “affidamento” per motivi di educazione o istruzione. 

Il rapporto di affidamento in custodia per motivi di educazione/istruzione  si instaura con gli insegnanti quando i genitori affidano un minore ad una scuola. Non importa quale tipologia di istruzione sia impartita nella scuola, quindi può trattarsi anche di uno sport.

La norma dunque fa intendere che il rapporto che si instaura tra maestro e allievo è di per sé caratterizzato da una oggettiva sudditanza. Per cui il consenso del minorenne ai rapporti sessuali sarebbe in ogni caso viziato.

La Suprema Corte ha ritenuto suggestiva, ma priva di fondamento giuridico la tesi difensiva dell’uomo. Questi infatti  ribadiva che non vi sarebbe stato nessun condizionamento della minore, in quanto la loro relazione era iniziata molto tempo prima che lui divenisse il suo maestro.

La Cassazione  ha altresì stabilito che la condizione di affidamento si verifica anche in mancanza di una formale attribuzione di compiti all’affidatario. In particolare, richiamando una sua precedente pronuncia, la Cassazione ha sottolineato come il rapporto di affidamento può instaurarsi con uno qualsiasi degli insegnanti della predetta struttura. Dunque non necessariamente con colui il quale è specificamente preposto alla cura didattica  (Corte di cassazione, Sezione III penale, 10 luglio 2012, n. 27282).

 

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