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separazione

Riforma Cartabia e affido dei minori: nuove sanzioni per i genitori inadempienti

13 Maggio 2025 Da Staff Lascia un commento

Con l’introduzione dell’art. 473-bis.39 del codice di procedura civile, la Riforma Cartabia del 2022 ha innovato profondamente la disciplina relativa all’esecuzione dei provvedimenti in materia di affidamento dei figli e responsabilità genitoriale. L’obiettivo della norma è garantire un rimedio concreto e tempestivo a tutela dei diritti del minore, soprattutto nei casi in cui uno dei genitori ostacoli il corretto svolgimento delle modalità di affidamento stabilite dal giudice.

Le novità dell’art. 473-bis.39 c.p.c.

La disposizione ha sostituito il previgente art. 703-ter c.p.c., introducendo una serie di strumenti sanzionatori attivabili anche d’ufficio dal giudice, qualora si verifichino:

•gravi inadempienze (anche di natura economica),

•atti pregiudizievoli per il minore,

•comportamenti che ostacolino l’esecuzione delle modalità di affidamento o l’esercizio della responsabilità genitoriale.

In presenza di tali condotte, il giudice può:

•modificare i provvedimenti in vigore;

•ammonire il genitore inadempiente;

•applicare una penalità di mora (ex art. 614-bis c.p.c.), determinando una somma dovuta per ogni violazione o giorno di ritardo;

•irrogare una sanzione amministrativa pecuniaria da 75 a 5.000 euro, destinata alla Cassa delle ammende.

Inoltre, il giudice può condannare il genitore inadempiente al risarcimento del danno in favore dell’altro genitore o, anche d’ufficio, in favore del minore.

Nessun onere di prova sul danno

Uno degli aspetti più rilevanti della norma è che non è necessario provare il danno subito dal minore: è sufficiente dimostrare l’inosservanza delle modalità di affidamento o delle responsabilità genitoriali stabilite dal giudice. Tale condotta, infatti, integra di per sé una violazione sanzionabile, con l’obiettivo di proteggere preventivamente il benessere del minore e scoraggiare comportamenti ostativi da parte dei genitori.

Tutela effettiva e tempestiva del minore

La ratio della norma è chiaramente quella di rafforzare l’effettività delle decisioni giudiziali in materia familiare, prevedendo meccanismi di reazione rapidi ed efficaci contro gli inadempimenti. Si supera così una prassi giurisprudenziale spesso caratterizzata da tempi lunghi e misure poco incisive, che in passato finivano per penalizzare proprio il minore, il cui interesse dovrebbe essere primario.

Applicazioni pratiche 

Su questa scia si è mosso il Tribunale di Verona che nell’ottica di fornire maggiore tutela del minore e l’esecuzione dei provvedimenti in materia familiare ha fatto applicazione dei strumenti previsti dall’art. 473-bis.39 c.p.c. per contrastare le condotte ostruzionistiche e assicurare un ambiente più stabile e protetto ai figli coinvolti nei procedimenti di separazione o divorzio.

In un primo caso, un padre separato si è rifiutato di versare l’assegno di mantenimento da 300 euro al mese per i figli, come previsto da un’ordinanza del Tribunale dell’11 febbraio. L’uomo sosteneva di avere già coperto alcune spese ma senza prove concrete. Il giudice, applicando l’articolo 473-bis.39 del Codice di procedura civile, ha imposto una penale di 100 euro al giorno per ogni giorno di ritardo nel pagamento. Dopo appena cinque giorni di multa, il padre si è messo in regola.

Un secondo caso riguarda una madre che, dopo la separazione, ha portato il figlio all’estero, ignorando il diritto di visita del padre. Nonostante due ordinanze – una italiana e una straniera – che le imponevano di far vedere il bambino al padre, la donna ha continuato a impedirgli ogni contatto. Il Tribunale di Verona ha definito la condotta «gravissima» e ha applicato una multa di 200 euro al giorno finché la madre non rispetterà la decisione del giudice. Prima di questa misura, le era già stato imposto un risarcimento danni di 3.000 euro.

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No al collocamento prevalente alla madre anche se il figlio è in età prescolare

10 Febbraio 2025 Da Staff Lascia un commento

Cassazione Civ., Sez. I, ordinanza 21 gennaio 2025 n.1486

Nell’ambito di un giudizio di separazione, la madre impugnava l’ordinanza del Tribunale che aveva disposto l’affidamento condiviso dei figli minori con un collocamento paritario e, sostenendo che la figlia fosse ancora in tenera età, chiede un collocamento prevalente presso di sé.

La Corte d’Appello accoglieva la richiesta della madre e modifica l’ordinanza di primo grado, disponendo un collocamento prevalente presso la madre e ridefinendo le modalità di frequentazione del padre. I giudici di secondo grado motivavano questa decisione affermando che, vista l’età della minore, sarebbe stato opportuno garantire un maggiore accudimento materno.

Il padre vedeva quindi limitato il suo diritto di visita a due pomeriggi settimanali e a weekend alternati (dal sabato mattina alla domenica sera), riducendo significativamente il tempo trascorso con la figlia rispetto alla collocazione paritaria precedentemente stabilita.

Il padre impugnava la decisione della Corte d’Appello dinanzi alla Corte di Cassazione, sostenendo che la Corte d’Appello avesse erroneamente ritenuto più conforme all’interesse della minore un collocamento prevalente presso la madre, riducendo drasticamente il suo diritto di visita e confinandolo solo quattro giorni pieni al mese e per poche ore nei giorni infrasettimanali. Secondo il ricorrente la decisione dei giudici di secondo grado aveva svalutato la relazione tra padre e figlia non considerando che il padre si fosse sempre occupato della figlia in modo paritario rispetto alla madre.

La Suprema Corte affronta innanzitutto il tema dell’ammissibilità del ricorso straordinario, facendo riferimento alla recente Riforma Cartabia. Secondo l’art. 473-bis.24 c.p.c., le decisioni prese in sede di reclamo su provvedimenti temporanei e urgenti, che comportano sostanziali modifiche dell’affidamento e del collocamento dei minori, possono essere impugnate per Cassazione.

Successivamente, la Corte esamina nel merito il ricorso e rileva che la Corte d’Appello ha adottato un criterio astratto, basato unicamente sulla tenera età della minore, senza considerare concretamente indici quali la relazione della bambina con entrambi i genitori, e condizioni di vita familiare, le reali capacità e attitudini di entrambi i genitori nell’accudimento e nell’educazione della figlia.

La Cassazione sottolinea che le decisioni in materia di affidamento, collocamento e frequentazione dei figli devono essere adottate esclusivamente nell’interesse morale e materiale del minore. Questo interesse si realizza garantendo un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori.

In questo caso, invece, la Corte d’Appello ha operato una scelta che pregiudica la relazione tra padre e figlia, limitando grandemente la frequentazione paterna senza motivazioni concrete.

Per tutte queste ragioni la Corte di Cassazione, con ordinanza n. 1486/2025 ha cassato la decisione di secondo grado e rimesso gli atti alla Corte di Appello poiché, in spregio al principio della bigenitorialità, essa ha trovato fondamento su un principio astratto (nello specifico, l’età della minore) anziché su un’analisi concreta della situazione familiare.

Il diritto alla bigenitorialità è innanzitutto un diritto del minore, non dei genitori. Questo diritto deve essere garantito con soluzioni concrete che favoriscano la conservazione di un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori e non può essere sacrificato senza reali motivazioni giacché la tenera età del figlio minore non è di per sé un criterio sufficiente a limitare drasticamente la frequentazione con un genitore.

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Cosa accade se il coniuge mente sulla propria vita?

14 Ottobre 2024 Da Staff Lascia un commento

Tribunale di Perugia, sentenza n. 939/2024 e Tribunale di Palmi, sentenza n. 6/2021

Secondo i giudici di merito la separazione è addebitabile al coniuge che fornisce false informazioni sulla propria vita.
È quanto accade, ad esempio, se un coniuge dà all’altro false informazioni su aspetti importanti della propria vita. Lo afferma il Tribunale di Perugia nella sentenza n. 939/2024.
La causa è stata promossa dalla moglie, che lamentava continue menzogne del marito, conosciuto in uno Stato estero. La donna aveva esposto, in particolare, che il coniuge le aveva fatto credere di esser stato giudice e avvocato nel proprio Paese e di svolgere attività di docenza in due atenei italiani; presentandosi come persona del tutto diversa da quella che in verità era, giacché aveva riferito di avere incarichi professionali inesistenti e mistificato la realtà, fingendo di avere un’identità diversa dalla propria
Non solo. Le menzogne rilevano anche se il mezzo tramite cui vengono perpetrate è quello dei social network.
Secondo la giurisprudenza di merito, infatti, anche le false informazioni personali sui social network sono lesive della dignità del coniuge e determinano la violazione dell’obbligo di fedeltà coniugale.
E’ quanto statuisce il Tribunale di Palmi (Reggio Calabria) con sentenza n. 6/2021.
La vicenda vedeva una moglie chiedere la separazione coniugale in seguito al progressivo estraniamento del marito dalla vita coniugale consistente in lunghi periodi fuori casa nonché nell’uso smodato del telefono cellulare. La ricorrente aveva, inoltre, appurato come il marito si definisse “single” su Facebook, alimentando consapevolmente la possibilità di entrare in contatto con altre donne.
Nel decidere ambedue le liti, i Giudici di merito richiamano i principi che governano l’onere della prova nelle controversie di separazione: la parte che chiede l’addebito deve provare che la condotta contestata abbia avuto efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza; l’altro coniuge deve invece dimostrare che quei fatti non hanno determinato la fine del rapporto.
Ebbene, tra i comportamenti in grado di rendere intollerabile la convivenza si annoverano certamente i comportamenti summenzionati. Si tratta, secondo i Decidenti, di comportamenti che «violano, in tutta evidenza, il dovere di lealtà (…) immanente all’unione matrimoniale», non potendosi dubitare che integri violazione del dovere coniugale «la condotta di chi tradisca la fiducia personale del coniuge, manipolando grandemente la realtà e fornendo una rappresentazione mendace delle proprie condotte, della propria identità lavorativa, della propria vita».

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Sì al collocamento dei figli nella casa familiare: i genitori si alternano

10 Giugno 2024 Da Staff Lascia un commento

Corte d’Appello di Torino, decreto del 14 marzo 2024, n. 314

Uno tra i provvedimenti più significativi emessi nell’ambito di un procedimento di separazione o divorzio è quello relativo al collocamento della prole, mediante il quale si provvede alla scelta della residenza abituale del minore a seguito della cessazione della convivenza tra i genitori.
Da tale decisione discende una serie di conseguenze di tutto rilievo, prima fra tante quella dell’assegnazione della casa familiare.
Il godimento della casa familiare viene infatti riconosciuto, a prescindere dal diritto di proprietà vantato sull’immobile, al genitore presso cui i figli vengono, appunto, collocati.
E’ facile comprendere, pertanto, come la decisione giudiziale circa il collocamento dei figli, in assenza di un accordo tra le parti, costituisca una tra le più frequenti cause di dissapori tra genitori separati o divorziati.

Più nello specifico, l’art. 337 ter c.c. prevede che: “Il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori […] il giudice adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa. Valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati, determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli. Prende atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori, in particolare qualora raggiunti all’esito di un percorso di mediazione familiare […].
Dalla lettura del dettato normativo si evince che il collocamento della prole può essere prevalente o paritetico, così come comunemente definito.
Se il collocamento è “prevalente” la prole viene collocata presso uno dei due genitori (c.d. genitore collocatario) a cui è assegnata la casa familiare, lasciando al genitore non collocatario il diritto di visita secondo un calendario prestabilito.
Diversamente, il collocamento paritetico prevede che i figli vivano per alcuni giorni presso l’abitazione paterna e per altri presso quella materna.

Con l’ordinanza n. 6810/2023 la Corte di Cassazione ha operato una vera e propria rivoluzione copernicana, stabilendo che il collocamento della prole potesse avvenire mediante alternanza dei genitori nella casa familiare.
Un’opzione, quest’ultima – spiega la Corte di legittimità – “che presuppone una seria e concordata organizzazione dei genitori a ciò funzionale, nel rispetto e nell’esercizio della responsabilità genitoriale di ciascuno” – la quale deve rispondere – “ al reale interesse dei minori ed alle loro esigenze di crescita ed essere idonea a consolidare l’habitat e le consuetudini di vita, finalità a servizio della quale è prevista l’assegnazione della casa familiare, di modo da consentire al giudicante gli approfondimenti istruttori, anche officiosi, e le valutazioni del caso, tenuto conto – previo ascolto dei minori ex art. 315 bis, comma 3, c.c. – dell’età, del grado di maturità e del livello di capacità di gestirsi anche in autonomia raggiunto dagli stessi.”
Mediante questo nuovo modello organizzativo i giudici di legittimità hanno introdotto, pertanto, la possibilità – bene accolta dai tribunali territoriali – che la casa familiare rimanga ad esclusiva fruizione della prole, prevedendo un meccanismo rotativo che consenta ai genitori di alternarsi, in giorni ed orari stabiliti, nell’ottica del “superiore interesse del minore” .
Tuttavia, se in un primo momento la Corte di Cassazione aveva stabilito che per poter disporre un collocamento mediante permanenza fissa dei minori nella casa familiare e rotazione dei genitori presso la stessa fosse necessaria la sussistenza di talune condizioni (quali l’assenza di rapporti conflittuali tra genitori e spirito di collaborazione che abbia ad oggetto non solo la cura del figlio, ma, altresì, la gestione della casa); da ultimo, La Corte d’Appello di Torino ha emesso un’innovativa decisione in tema di collocamento della prole confermando, con il decreto n. 314 del 14 marzo 2024, la pronuncia del Tribunale di Cuneo che, senza alcun accordo tra le parti, aveva disposto il collocamento paritario e alternato delle figlie nella casa coniugale.
Tale pronuncia può essere considerata all’avanguardia principalmente perché, per la prima volta, viene disposto un affido paritario e alternato in via impositiva, pur mancando il consenso di entrambe le parti. Fino al marzo scorso, infatti, si riteneva che tale soluzione potesse essere accolta solo in caso di accordo tra i genitori e quindi in assenza di contrasti tra gli stessi. La Corte d’Appello di Torino ha ritenuto, tuttavia, che subordinare la scelta del collocamento mediante permanenza fissa della prole nella casa familiare alla sussistenza di uno spirito collaborativo tra i coniugi costituisca, ancora una volta, una fonte du pregiudizio eccessivo per i figli, trasformandosi in un rimedio residuale e difficilmente utilizzabile.
Ne consegue che la previsione di una rotazione settimanale alternata dei genitori nella casa familiare possa essere accordata anche in assenza di un clima di reciproca cooperazione.
In questo modo si pongono davvero le basi per la concreta salvaguardia della serenità dei figli, garantendo agli stessi un ambiente di vita stabile e prevedendo che siano gli adulti a doversi organizzare per garantire la continuità affettiva ai minori, vittime incolpevoli della crisi coniugale.

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SI’ ALLA SCUOLA PRIVATA ANCHE SENZA IL CONSENSO DELL’ALTRO GENITORE

24 Maggio 2024 Da Staff Lascia un commento

Corte di Cassazione, ordinanza n. 13570/2024

In caso di disaccordo tra i genitori separati (ed entrambi affidatari) sulla scelta della scuola del figlio, pubblica o privata religiosa, la laicità dello Stato non può trasformarsi in un principio superiore rispetto a tutti gli altri al punto da orientare necessariamente la scelta verso un istituto pubblico.

IL CASO

Nell’ambito di una causa di divorzio, una donna presentava un ricorso al fine di ottenere l’autorizzazione ad iscrivere il figlio minorenne, per il ciclo di scuola secondaria di primo grado, presso l’istituto scolastico in precedenza frequentato. Dopo l’audizione del minore, il tribunale autorizzava, salvo differente espresso accordo dei genitori, a procedere, pure senza il consenso del padre, a iscrivere il minore alla scuola secondaria. Si osservava che, in mancanza di un’intesa tra i genitori a favore di un istituto scolastico privato, e non emergendo controindicazioni all’interesse del minore, la decisione non poteva che essere a favore dell’istruzione pubblica, salva l’esistenza di elementi da cui desumere un interesse del minore a frequentare una scuola diversa da quella pubblica. Nel caso di specie, il giudice di prime cure ha tenuto conto dell’interesse del ragazzo a proseguire il percorso scolastico presso l’istituto scolastico già frequentato, elemento di stabilità e continuità relazionale e sociale.
Il padre – che non aveva prestato alcun consenso a che il figlio frequentasse una scuola privata – si è rivolto dapprima alla Corte d’appello, che non ha accolto l’impugnazione, e, successivamente, ha adito la Corte di Cassazione lamentando che la scelta della madre “vanifica la laicità delle scuole pubbliche” realizzando una “coazione del minore verso una determinata religione”.

IL PRINCIPIO DI DIRITTO

I Giudici di legittimità si sono occupati di dirimere il contrasto insorto tra separati, ambedue esercenti la responsabilità genitoriale, sulla scelta della scuola, religiosa o laica, presso cui iscrivere il figlio, ritenendo prevalente l’esigenza di tutelare il preminente interesse del minore a una crescita sana ed equilibrata. Infatti, il principio di laicità “non può essere invocato in termini assoluti, né esso può assurgere a valore tiranno, rispetto agli altri, pure in gioco”.
In altri termini, la laicità dello Stato non può trasformarsi in un principio superiore rispetto a tutti gli altri al punto da orientare necessariamente la scelta verso un istituto pubblico. Tale principio va infatti bilanciato con altri valori, parimenti di rango costituzionale, come il “benessere del minore e il suo interesse a mantenere i rapporti sociali” già acquisiti.
Nel caso si specie, si è evidenziato che già dall’audizione del minore era emerso il suo desiderio di poter continuare a frequentare lo stesso istituto, “dove aveva numerose amicizie e buoni rapporti con gli insegnanti”. Inoltre, dalla relazione psicodiagnostica richiesta da entrambi i genitori, emergeva che il minore “aveva bisogno di stabilità e conservazione dei riferimenti acquisiti, anche alla luce del disturbo non specificato, di cui soffriva”.
Peraltro, la Suprema Corte ha ritenuto che in una fase esistenziale già caratterizzata dalle difficoltà conseguenti alla separazione dei genitori, sia importante non introdurre fratture e discontinuità ulteriori, come quelle facilmente conseguenti alla frequentazione di una nuova scuola, assicurando ai figli minori la continuità ambientale nel campo in cui si svolge propriamente la loro sfera sociale ed educativa.
L’impianto seguito dalla Corte di Cassazione è, oltretutto, quello più volte ribadito dalla CEDU (ex multis sentenza n. 54032/22), secondo cui talune limitazioni sulle modalità di coinvolgimento del minore in una pratica religiosa scelta da uno dei genitori non costituiscono una discriminazione se funzionali a garantire e preservare il superiore interesse del minore.
Si osservi, peraltro che in caso di contrasto su scelte rilevanti, il giudice, è chiamato, in via del tutto eccezionale ad adottare provvedimenti in luogo dei genitori a “ingerirsi nella vita privata della famiglia”. Nel farlo, il giudice è obbligato a tenere conto “esclusivamente del superiore interesse, morale e materiale, del minore a una crescita sana ed equilibrata”. “Con la conseguenza – prosegue la decisione – che il conflitto sulla scuola primaria e dell’infanzia, pubblica o privata, presso cui iscrivere il figlio, deve essere risolto verificando non solo la potenziale offerta formativa, l’adeguatezza edilizia delle strutture scolastiche e l’assolvimento dell’onere di spesa da parte del genitore che propugna la scelta onerosa ma, innanzitutto, la rispondenza al concreto interesse del minore, in considerazione dell’età e delle sue specifiche esigenze evolutive e formative, nonché della collocazione logistica dell’istituto scolastico rispetto all’abitazione del bambino, onde consentirgli di avviare e/o incrementare rapporti sociali e amicali di frequentazione extrascolastica, creando una sua sfera sociale, e di garantirgli congrui tempi di percorrenza e di mezzi per l’accesso a scuola e il rientro alla propria abitazione”.
Ne discende che l’esigenza di garantire la piena libertà di credo religioso a favore del minore è da ritenere recessiva dinnanzi al superiore interesse di quest’ultimo di soddisfare i propri desideri di continuare la frequentazione della scuola privata laddove questa scelta contribuisca ad assicurare una crescita equilibrata e stabile, fondata sui riferimenti sociali acquisiti.

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Telefonate del figlio con l’ex coniuge: ascoltare è reato se non c’è pericolo per il minore

14 Marzo 2024 Da Staff Lascia un commento

Telefonate del figlio con l’ex coniuge: ascoltare è reato se non c’è pericolo per il minore.
A stabilire il superiore principio di diritto la Suprema Corte Sez. V penale con la recente sentenza n.7470/2024.

La questione giuridica

Accade spesso che un genitore ascolti (e talvolta financo registri) le telefonate tra il figlio minore e l’altro genitore separato.
In genere ciò avviene in un contesto di alta conflittualità tra i coniugi, in cui non è infrequente che i genitori tendano ad intrattenere conversazioni telefoniche volte a screditare l’altra figura genitoriale. 
In questi casi, tuttavia, il rischio è quello di integrare la fattispecie di reato prevista e punita dall’art. 617 c.p., secondo cui “chiunque, fraudolentemente, prende cognizione di una comunicazione o di una conversazione, telefoniche o telegrafiche, tra altre persone o comunque a lui non dirette, ovvero le interrompe o le impedisce è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a cinque anni”. 

La vicenda

Il Tribunale di Ancona condannava in primo grado una donna per aver posto in essere una condotta illecita quale quella di ascolto e registrazione delle conversazioni tra il marito dal quale si era separata e la figlia di appena dieci anni.
La donna proponeva appello rilevando che i toni del padre nel corso delle telefonate fossero spiccatamente aggressivi e connotati da un intento di prevaricazione.
La Corte di Appello di Ancona, respingendo l’argomento difensivo della donna, confermava la sentenza dei giudici di prime cure.

La donna ricorreva in Cassazione

I legali della donna ricorrevano in Cassazione, sostenendo che la loro assistita non fosse responsabile del reato a lei ascritto. Ritenevano infatti che – nel corso delle telefonate tra padre e figlia – anche lei interloquiva con l’ex marito, venendo quindi a mancare il carattere fraudolento dell’ascolto.
Si rimarcava peraltro che, pur assumendo che si trattasse di comunicazioni riservate, il comportamento aggressivo e prevaricatore del padre aveva reso necessario l’intervento di incursione della donna. Ciò non soltanto per evitare che la minore potesse trarre pregiudizio dalle telefonate, ma anche per impedire che il Tribunale civile accogliesse la richiesta dell’uomo di collocare presso di lui la bambina.
Tale circostanza avrebbe fatto venir meno la condotta intrusiva in quanto la donna avrebbe agito in uno stato di necessità e a tutela della minore, determinando l’applicazione delle scriminanti di cui agli artt. 54 (stato di necessità) e 51 c.p. (esercizio di un diritto o adempimento di un dovere) che escludono l’antigiuridicità del fatto. 

La decisione degli Ermellini

La Cassazione, nell’esercizio della sua funzione nomofilattica, ha chiarito che il reato di cui all’art. 617 c.p. può essere scriminato dall’esercizio legittimo del potere del genitore che discende dal dovere di vigilanza sulla prole. La scriminante deve essere valutata ex ante e non esclusivamente in base al contenuto emerso dalle conversazioni ascoltate “fraudolentemente”. 
Nel caso in esame i Giudici di legittimità hanno rigettato il ricorso della donna ritenendo che il fatto non potesse essere scriminato.
L’intrusione della donna nelle comunicazioni, infatti, non è determinata da una effettiva necessità e non è funzionale al perseguimento delle finalità per cui il potere è conferito.
Potrebbe anche interessarti “Addebito: spetta al coniuge infedele provare la preesistenza della crisi rispetto al tradimento”. Leggi qui.
 
 
 
 
 

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Conto cointestato agli ex: il denaro depositato sul conto corrente si presume appartenere ad entrambi i titolari. È comunque possibile provare l’origine personale delle somme. 

1 Marzo 2024 Da Staff Lascia un commento

Conto cointestato: il denaro depositato sul conto corrente cointestato a marito e moglie in comunione legale si presume che appartenga ad entrambi (Cass. Civ. Sez. I Ord. n. 28772 del 17 ottobre 2023).
L’ex che, al momento dello scioglimento della comunione legale, vuole far valere una situazione giuridica diversa può sempre dare la prova contraria la quale deve essere valutata dal giudice di merito. 
In particolare, il ricorrente dovrà dimostrare anzitutto che si tratti di beni «personalissimi», che gli appartenevano prima della comunione o che egli ha ricevuto durante la comunione per successione o donazione. 

Come superare la presunzione del carattere comune del denaro

Il superamento della presunzione del carattere comune del denaro che residua dopo lo  scioglimento della comunione, esige che sia provata non solo l’origine personale del denaro, ma anche che sia stato conservato e non usato per i bisogni della famiglia. Le spese effettuate per i bisogni della famiglia, che traggono provvista nel conto cointestato, riconducibili alla logica della solidarietà coniugale, in adempimento dell’obbligo di contribuzione previsto dall’articolo 143 del Codice civile, non determinano alcun diritto al rimborso tra i coniugi. 
In altri termini, non è possibile chiedere il rimborso dei prelievi di denaro da un conto cointestato (ancorché esso sia alimentato in maniera quasi esclusiva da uno solo dei coniugi) laddove essi siano stati effettuati per far fronte alle necessità familiari. 
Sono questi i principi – precisati dalla Cassazione – che governano il destino delle somme depositate sul conto cointestato ai coniugi quando questi si separano.

Doveri scaturenti dal matrimonio

L’art. 143 c.c. prevede che “Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri. Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione.
Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia.
Ne consegue che un coniuge non può chiedere all’altro di rimborsare le spese che ha effettuato, attingendo al conto cointestato, per i bisogni della famiglia e che siano riconducibili alla logica della solidarietà coniugale, in adempimento dell’obbligo di contribuzione previsto dall’art. 143 c.c.
Viceversa, il coniuge che ha effettuato spostamenti di denaro a proprio vantaggio, per spese voluttuarie e non nell’interesse della famiglia, ha un obbligo di rimborso, in favore dell’altro coniuge, della metà delle somme prelevate dal patrimonio comune.

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Addebito: spetta al coniuge infedele provare la preesistenza della crisi rispetto al tradimento

17 Febbraio 2024 Da Staff Lascia un commento

Addebito: spetta al coniuge infedele provare la preesistenza della crisi rispetto al tradimento. A confermare il superiore principio di diritto la Suprema Corte con l’ordinanza n. 16169 del 08.06.2023.

Per gli Ermellini grava sulla parte che richieda, per inosservanza dell’obbligo di fedeltà, l’addebito della separazione all’altro coniuge l’onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza.

La vicenda

Primo grado: Nel corso di un procedimento di separazione, entrambi i coniugi chiedono l’addebito; il Tribunale rigetta ambedue le domande, assegna la casa familiare alla moglie, in quanto collocataria della prole e pone a carico del marito un assegno di mantenimento a suo favore pari a 700,00 euro. In particolare, secondo il Tribunale, la relazione della donna con un altro uomo non avrebbe avuto un’incidenza causale sulla separazione, stante la perdurante (e precedente) crisi originata dall’incidente che ha costretto il marito in sedia a rotelle.

Grado di appello: L’uomo contesta la ricostruzione e propone appello. In accoglimento delle doglianze dell’uomo i giudici di secondo grado riformano la sentenza di prime cure addebitando la separazione alla moglie a cui è revocato il mantenimento con conseguente condanna alla ripetizione di tutti gli importi percepiti.

I giudici di secondo grado riesaminando le risultanze istruttorie hanno ritenuto che la relazione more uxorio intrapresa dalla donna – una volta abbandonata la casa coniugale – abbia avuto un’incidenza causale nella crisi familiare. Infatti, dopo l’incidente, la coppia ha continuato a vivere insieme per otto anni. Dalle conversazioni whatsapp versate in atti emerge come fosse ancora sussistente l’affectio coniugalis. Pertanto, la crisi del rapporto è imputabile al tradimento della donna, onde la dichiarazione di addebito della separazione. 

Quando è pronunciato l’addebito

L’addebito è pronunciato in tutti i casi in cui la violazione degli obblighi coniugali sia stata causa della crisi matrimoniale. La sentenza di separazione con addebito comporta delle conseguenze patrimoniali. In tal senso l’addebito ha natura sanzionatoria. Il coniuge perde il diritto di percepire l’assegno di mantenimento e perde, altresì, i diritti successori. Tuttavia, la legge mantiene alcune tutele, come il diritto agli alimenti, da corrispondere solo in caso di bisogno. Inoltre, se la lesione dei doveri nascenti dal matrimonio è così grave da violare principi costituzionalmente protetti, il partner può chiedere anche il risarcimento del danno da illecito endofamiliare.

La decisione degli Ermellini

La donna, contestando la ricostruzione dei giudici di Corte di Appello, decide di ricorrere in Cassazione. In tale sede la Corte di Cassazione, Sezione I, con l’ordinanza del 18 dicembre 2023, n. 35296, ricorda i principi della giurisprudenza in relazione alla ripartizione dell’onere della prova. Ed in particolare sottolinea che la parte che chiede l’addebito della separazione all’altro coniuge, ad esempio, per inosservanza dell’obbligo di fedeltà, ha l’onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza. Invece, l’altro coniuge che eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda deve provare le circostanze su cui l’eccezione si fonda. Ossia deve provare l’anteriorità della crisi matrimoniale rispetto all’accertata infedeltà.

Gli ermellini, quindi, rigettavano il ricorso della donna con conseguente conferma delle statuizioni di secondo grado.

Potrebbe anche interessarti “Convivenza prematrimoniale: se ne deve tenere conto ai fini dell’assegno di divorzio”. Leggi qui.

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