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Legge e Giurisprudenza

I nipoti non possono essere costretti a frequentare i nonni e gli zii

30 Marzo 2023 Da Staff Lascia un commento

I nipoti non possono essere costretti a frequentare i nonni e gli zii. A stabilire il superiore principio di diritto la Suprema Corte con l’ordinanza del 31 gennaio 2023, n. 2881.

Il caso

il Tribunale per i minorenni di Milano, in accoglimento della richiesta dei nonni e dello zio paterno, disponeva che i ricorrenti potessero intrattenere rapporti con i due nipoti, secondo la regolamentazione
disposta dai servizi sociali.  Tale decisione veniva, altresì, confermata in sede di gravame.

Ed in particolare
anche la Corte di Appello riteneva che nessun pregiudizio poteva derivare per i minori dalla frequentazione con i parenti paterni.

I genitori proponevano ricorso per Cassazione

I genitori impugnavano la decisione della Corte di Appello presentando ricorso per Cassazione atteso il rifiuto dei minori di incontrare i nonni e lo zio paterno.

Per quanto riguarda la posizione dei nonni, la Suprema Corte ricorda che le modalità con cui riconoscere il diritto degli ascendenti a mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni devono essere  individuate alla luce del primario interesse del minore, secondo un principio di carattere generale che è riconducibile agli artt. 2,30 e 31 Cost.  Ne consegue, quindi, che il superiore interesse del minore, dovendo essere il principio guida, può prevalere su quello dei genitori o degli altri familiari.
Precisa la Suprema Corte che Il giudice adito dai nonni e dagli zii deve tenere in considerazione l’art. 317-bis c.c. che nel riconoscere agli ascendenti un vero e proprio diritto a mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni, non attribuisce allo stesso un carattere incondizionato, ma ne subordina l’esercizio e la tutela a una valutazione del giudice avente di mira l‘esclusivo interesse del minore.

Iter logico giuridico

Nel caso di specie emerge che i giudici di merito si sono limitati a constatare esclusivamente l’insussistenza di un reale pregiudizio per i minori nel passare del tempo con i nonni e lo zio paterni. Ed ancora rilevano gli ermellini che è l’ascendente, e non il minore, a dovere prestarsi a cooperare nella realizzazione del progetto educativo e formativo del predetto.

Quindi, in caso di conflittualità fra genitori e ascendenti la questione rilevante non è quella di assicurare tutela a potestà contrapposte, individuando quale delle due debba prevalere sull’altra, ma di bilanciare, se e fin dove è possibile, le divergenti posizioni nella maniera più consona al primario interesse del minore.

Di conseguenza il giudice deve valutare, alla luce del superiore interesse del minore, se i rapporti
non armonici o conflittuali tra gli adulti si possano comporre e come ciò possa avvenire.

Dopo aver verificato l’esistenza di tale possibilità dovrà determinare le concrete modalità di questa necessaria collaborazione, tenendo conto dei differenti ruoli educativi, e stabilire, di conseguenza, anche tramite l’ascolto dei minori coinvolti le più opportune modalità di organizzazione degli incontri.

In conclusione

il mantenimento di rapporti significativi, perciò, non può essere assicurato tramite la
costrizione del bambino, attraverso un’imposizione di una relazione sgradita e non voluta, cosicché nessuna frequentazione può essere disposta a dispetto della volontà manifestata da un minore che abbia compiuto i dodici anni o che comunque risulti capace di discernimento.

Per tali ragioni la Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso dei genitori, cassa la sentenza rinviando nuovamente alla Corte di Appello. 

Potrebbe anche interessarti “Malattia mentale: può determinare automaticamente l’inidoneità genitoriale?”. Leggi qui.

Archiviato in:I nostri articoli, Legge e Giurisprudenza Contrassegnato con: ascendenti, ascolto del minore, diritto di frequentare i nipoti, discendenti, minori, nonni, superiore interesse del minore, zii

Convivenza di fatto e perdita dell’assegno di divorzio: escluso ogni automatismo

26 Marzo 2023 Da Staff Lascia un commento

Una stabile convivenza di fatto tra un terzo e l’ex coniuge economicamente più debole non determina la caducazione automatica dell’assegno di divorzio. Questi, se privo di mezzi adeguati e impossibilitato a procurarseli per motivi oggettivi, conserva il diritto al riconoscimento dell’assegno di divorzio in funzione esclusivamente compensativa. A stabilire il superiore principio di diritto la Suprema Corte con la sentenza n. 5510/2023.

Il caso

Il Tribunale di Roma dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio di due coniugi e affidava la figlia minore ad entrambi i genitori, con collocamento presso la madre nella casa coniugale a lei assegnata e stabiliva, a carico dell’ex marito, il dovere di corrispondere, a favore della moglie, una somma di danaro a titolo di assegno divorzile.
La decisione di prime cure veniva impugnata dinanzi alla Corte d’Appello di Roma, la quale
disponeva la revoca dell’assegno divorzile a carico dell’uomo, confermando nel resto la decisione
del giudice di prima istanza.
I giudici di appello, infatti, dopo aver esaminato le relazioni investigative allegate dal marito, le
dichiarazioni rese dall’ex moglie e dai figli, nonché la documentazione bancaria prodotta e le
risultanze anagrafiche, rilevavano la costituzione di un legame pluriennale della donna con un altro
uomo, caratterizzato da ufficialità, da una frequentazione quotidiana con periodi più o meno lunghi
di convivenza. Tutto ciò evidenziava l’esistenza di un rapporto affettivo caratterizzato da mutua
assistenza morale e materiale e da una tendenziale stabilità. 

Avverso la decisione della Corte d’Appello la donna proponeva ricorso per Cassazione

La Corte, lo scorso 22 febbraio, ha accolto il ricorso della donna e ha cassato la sentenza impugnata.
Secondo i giudici di legittimità, infatti, l’instaurazione da parte dell’ex coniuge di una stabile
convivenza more uxorio, giudizialmente accertata, incide sul diritto al riconoscimento di un assegno
di divorzio o alla sua revisione, in virtù del progetto di vita intrapreso con il terzo e dei reciproci
doveri di assistenza morale e materiale che ne derivano, ma non determina necessariamente la
perdita automatica ed integrale del diritto all’assegno, in relazione alla sua componente compensativa.

Potrebbe anche interessarti: “Assegno divorzile: il giudice deve contemporaneamente prendere in esame tutti i parametri valutativi indicati dall’art. art. 5 della legge 898/1970?”. Leggi qui.

Archiviato in:I nostri articoli, Legge e Giurisprudenza Contrassegnato con: assegno, assegno di mantenimento moglie, assegno divorzile, divorzio, funzione assistenziale, funzione perequativa, separazione

Lavoro casalingo? l’assegno di mantenimento deve essere più alto

13 Gennaio 2023 Da Staff Lascia un commento

Lavoro casalingo? l’assegno di mantenimento  per la ex moglie deve essere più alto ciò in quanto tale lavoro va qualificato come contributo alla conduzione familiare.

A stabilire il superiore principio di diritto è la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 24826 del 17 Agosto 2022.

Ed in particolare, gli Ermellini ritengono che occuparsi della casa, consentendo al coniuge di svolgere la sua attività senza altre incombenze, è un lavoro che merita il dovuto riconoscimento al momento della separazione e del divorzio.

Il giudice non può, infatti, stabilire un assegno che sia solo assistenziale, senza considerare il contributo che la donna da alla formazione del patrimonio comune o del marito. Partendo da questo principio la Cassazione con la sentenza sopra richiamata bacchetta la Corte d’appello che aveva avallato il taglio dell’assegno in favore della ex moglie riducendolo da € 600,00 ad € 250,00.

L’iter logico giuridico seguito dai giudici di merito

I giudici di merito, rilevavano che la signora aveva 52 anni, non aveva problemi di salute e, in più abitava in Sardegna, regione turistica nella quale non mancavano occasioni di lavoro. Alla luce di ciò la Corte territoriale riteneva che non sussistessero nel caso di specie i presupposti affinché la donna fosse totalmente mantenuta dal marito, avendo diritto solo ad una somma che l’aiutasse a raggiungere l’indipendenza economica.

Peraltro in sede istruttoria era emerso che il suo impegno, in assenza di figli, durante il non lungo matrimonio, durato 8 anni, era stato speso solo per la casa.

La decisione della Corte di Cassazione

La donna ritenendo illegittimo il provvedimento che riduceva il suo mantenimento adiva la Corte di Cassazione.

La Suprema Corte, facendo un ragionamento completamente diverso, ribaltava la decisione della Corte di Appello.

Sul piatto della bilancia, i giudici di legittimità mettono la diversa situazione economica della ex coppia. Il marito con uno stipendio di 1.900 euro, proprietario di un immobile e di due case in nuda proprietà. La signora, di contro, non aveva mai lavorato, per espressa volontà del marito, e non possedeva qualifiche o professionalità da spendere nel mondo del lavoro dopo i 50 anni, nonostante la donna fosse iscritta nelle liste di collocamento.

Secondo gli Ermellini, in ogni caso, la Corte di Appello aveva errato nel non considerare un lavoro a tutti gli effetti il lavoro casalingo.

Ed in particolare, la cura della casa e quindi il lavoro casalingo è da considerarsi un contributo alla conduzione familiare che ha, tra l’altro, permesso all’ex marito di dedicarsi alla sua occupazione.

Alla luce di ciò, la Suprema corte ha annullato con rinvio per un nuovo giudizio avanti la Corte di Appello, invitando la predetta  a decidere per un assegno compensativo, che tenga conto del contributo dato dalla ricorrente alla vita familiare.

Potrebbe anche interessarti “Assegno divorzile: il giudice deve contemporaneamente prendere in esame tutti i parametri valutativi indicati dall’art. art. 5 della legge 898/1970?”. Leggi qui.

Archiviato in:I nostri articoli, Legge e Giurisprudenza Contrassegnato con: assegno di divorzio, assegno di mantenimento, casalinga, divorzio, moglie, moglie casalinga, separazione

Malattia mentale: può determinare automaticamente l’inidoneità genitoriale?

30 Dicembre 2022 Da Staff Lascia un commento

Malattia mentale: essere affetti da malattia mentale può automaticamente determinare una
inidoneità genitoriale tale da condurre alla dichiarazione di adottabilità del minore?
Ad affrontare tale quesito giuridico è la Suprema Corte di Cassazione che, con
sentenza n. 21992 del 12 luglio del 2022, mette in rilievo come l’adozione del minore
rappresenti una misura eccezionale a carattere residuale.
Ed in particolare, la Corte di Cassazione precisa come sia possibile ricorrere a tale
strumento solo ove sia riscontrato l’effettivo stato di abbandono a causa dell’assenza
di assistenza morale e materiale ex art 147 c.c. da parte dei genitori o di altri parenti tenuti a
provvedervi.

Il caso

Una bambina nasceva da una breve relazione intercorsa tra una signora ricoverata presso un centro di salute mentale ed un paziente psichiatrico della medesima struttura. Quest’ultimo, successivamente, non procedeva a riconoscere la figlia.
Il Tribunale per i Minorenni collocava la diade mamma/bambina all’interno di una
 comunità, disponendo al contempo che venissero monitorate le capacità genitoriali
della madre. Successivamente, veniva dichiarato dal Tribunale lo stato di adottabilità della minore a
causa delle condizioni di abbandono in cui versava la figlia per l’incapacità della madre di fornirle le adeguate cure materiali e psicologiche. Tale sentenza veniva impugnata dalla madre e dalla nonna materna, le quali ricorrevano in appello chiedendo la revoca dello stato di adottabilità e l’affidamento
della minore alla madre o, in subordine, alla nonna.

La Corte di Appello rigettava le doglianze delle predette adducendo la compromissione delle capacità cognitive della madre, non effettivamente sintonizzata con le esigenze della figlia. La Corte di Appello, al contempo, sottolineava l’incapacità della nonna materna di esercitare la funzione genitoriale in luogo della figlia a causa del rapporto conflittuale intercorrente tra madre e figlia, oltre che per i disturbi
psicologici di cui anch’ella era affetta.

La decisione della Suprema Corte

Avverso questa pronuncia, sia la madre che la nonna materna, proponevano due
distinti ricorsi per Cassazione a seguito dei quali veniva dalla Suprema Corte affrontava la questione che segue. Essere affetti da una determinata malattia mentale può automaticamente implicare una inidoneità genitoriale?
Ebbene, gli Ermellini rispondono di no a tale quesito accogliendo i motivi di impugnazione delle ricorrenti e rinviando alla Corte d’Appello.
A fondamento di tale decisione la Suprema Corte sottolinea come essere affetti da una malattia mentale non possa automaticamente determinare una inidoneità genitoriale tale da condurre alla dichiarazione dello stato di adottabilità del minore. In tal caso, infatti, è doveroso porre in essere un adeguato approfondimento delle capacità genitoriali del genitore di riferimento al fine di valutare che sia in grado di garantire alla prole una sana ed armoniosa crescita.
Ed ancora, deve verificarsi concretamente se lo stato di abbandono in cui versi in quel momento il minore sia definitivo o solo transitorio tenendo a mente che il primario diritto del minore, che gli deve essere garantito, è quello di crescere all’interno della propria famiglia d’origine.

Extrema ratio

Secondo la Suprema Corte, la possibilità che si giunga a dichiararne lo stato di adottabilità deve essere sempre considerata quale extrema ratio da applicarsi solo in caso di irreversibile venir meno delle capacità genitoriali dei genitori e dei relativi familiari (entro il quarto grado) eventualmente disponibili a prendersi cura del minore.
Di conseguenza, lo stato di adottabilità non può essere in ogni caso dichiarato in presenza dei suddetti presupposti, dovendo invece ravvisarsi evidenti carenze nelle
capacità genitoriali e criticità nella salute psicologica dei genitori, unitamente a comportamenti che determinino un effettivo pregiudizio nella crescita del minore.

Potrebbe anche interessarti: “In tema di affidamento, il criterio fondamentale è costituito dall’esclusivo interesse morale e materiale della prole”. Leggi qui. 

Archiviato in:I nostri articoli, Legge e Giurisprudenza Contrassegnato con: adottabilità, genitori, idoneità genitoriale, malattia, minore, minori, superiore interesse

Assegno divorzile: il giudice deve contemporaneamente prendere in esame tutti i parametri valutativi indicati dall’art. art. 5 della legge 898/1970?

13 Dicembre 2022 Da Staff Lascia un commento

Assegno divorzile: il giudice deve contemporaneamente prendere in esame tutti i parametri valutativi indicati dall’art. 5 della l. n. 898/1970?

Ad affrontare tale questione è la Corte di Cassazione che, con ordinanza n. 26672 del 2022, ricorda che ogni assegno divorzile ha una propria natura e torna a ribadire che il giudice può decidere di valorizzare in misura preponderante, tra i vari criteri legali utilizzabili ai fini della quantificazione dello stesso, quello ritenuto più confacente al caso concreto.

Il caso

A seguito della pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale poneva a carico dell’ex marito il pagamento di un assegno divorzile in favore della ex moglie pari ad € 1.300,00 mensili. Tale decisione veniva confermata anche in sede di appello in quanto la Corte di merito, pur riconoscendo che la quantificazione dell’assegno divorzile debba tenere conto dei parametri indicati dall’art. 5 della l. n.
898/1970, riteneva di dover dare rilievo al consistente divario reddituale esistente tra le parti, specie in considerazione della malattia da cui era affetta la donna.

Avverso tale statuizione, l’uomo proponeva ricorso per Cassazione lamentando che la Corte d’Appello non avrebbe effettuato un adeguato bilanciamento di tutti i parametri indicati dalla suddetta norma giuridica soffermandosi unicamente sulla malattia di cui era affetta la ex moglie e sulla disparità reddituale esistente tra gli ex coniugi.
In particolare, secondo il ricorrente, il tetto massimo della misura dell’assegno divorzile era stato sicuramente superato, in quanto l’importo attribuito a titolo dello stesso andava ad aggiungersi alla pensione percepita dalla ex moglie, nonché al godimento integrale, da parte di quest’ultima, della proprietà della casa familiare, di cui era divenuta titolare esclusiva, a seguito della cessione da parte dell’uomo della quota di sua spettanza in adempimento degli accordi di separazione.

La decisione della Suprema Corte

Gli Ermellini si soffermano, quindi, sul seguente quesito giuridico: ai fini della quantificazione dell’assegno divorzile il giudice deve tenere conto di tutti i parametri di cui alla l. n. 898/1970, art. 5, comma 6, oppure può attribuire valore solo ad alcuni di essi escludendo, quindi, gli altri?

La Suprema Corte, fin da epoca risalente, ha avuto più volte modo di chiarire che i giudici di merito, nel quantificare l’importo dell’assegno divorzile, non è tenuto a prendere in considerazione tutti i criteri indicati dall’art. 5, l. n. 898/1970, essendo, piuttosto, necessario che lo stesso giustifichi in modo adeguato le sue valutazioni.

Pertanto, deve escludersi la necessità di una puntuale e contemporanea considerazione da parte del giudice di tutti i parametri di riferimento indicati nella legge divorzile.
Di conseguenza, secondo la Cassazione, il giudice di merito può anche prescindere dal
prendere in considerazione taluni parametri e tale scelta discrezionale non è sindacabile in sede di legittimità.
Ciò posto, nel caso di specie, la Corte di appello ha deciso, da un lato, di porre al centro il consistente divario reddituale esistente tra le parti e, dall’altro lato, la particolare situazione di salute in cui versava la ex moglie.
Quest’ultima, infatti, poteva contare come introito sull’esclusivo assegno pensionistico e, data la sua grave invalidità, si trovava, in ogni caso, nella condizione di non avere risorse sufficienti per far fronte alle sue necessità di vita condizionate dalla malattia,

In conclusione, secondo la Cassazione, la Corte di merito ha espresso un giudizio consentito e, poiché adeguatamente motivato, neppure sindacabile in sede di legittimità.

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Archiviato in:I nostri articoli, Legge e Giurisprudenza Contrassegnato con: assegno di divorzio, assegno di mantenimento, assegno divorzile, divorzio, ex marito, ex moglie, separazione

In tema di affidamento, il criterio fondamentale è costituito dall’esclusivo interesse morale e materiale della prole

25 Novembre 2022 Da Staff Lascia un commento

In tema di affidamento, il criterio fondamentale è costituito dall’esclusivo interesse morale e materiale della prole.

A confermare il summenzionato principio di diritto è la Suprema Corte di Cassazione con ordinanza n. 21425 del 6 luglio 2022.

Il caso

Una coppia, dopo un periodo di frequentazione, intraprendeva una convivenza e dalla loro relazione sentimentale nascevano due figlie. 

La madre, qualche anno dopo e senza il consenso del padre, si trasferiva con le figlie minori presso l’abitazione dei propri genitori a circa 70 km di distanza dalla casa familiare.

Il Tribunale territorialmente competente, adito dal padre, disponeva a causa di tale condotta, l’affido esclusivo delle figlie minori in favore di quest’ultimo con collocamento prevalente presso la di lui casa familiare. Il Tribunale incaricava, inoltre, i Servizi Sociali di monitorare il nucleo familiare.

La madre impugnava innanzi alla Corte d’Appello territorialmente competente il suddetto provvedimento di primo grado ma i giudici di secondo grado respingevano il reclamo dalla stessa proposto. Ciò in quanto i giudici sostenevano che lo stato di sofferenza morale e psicologico di cui era affetta la madre delle minori non poteva giustificare una scelta talmente grave ed arbitraria come quella di sradicare le figlie dal consueto ambiente familiare, amicale e scolastico, senza il consenso dell’altro genitore.

La Corte d’Appello affermava che la decisione della madre di allontanarsi con le bambine dalla casa familiare, senza il consenso paterno, era tale da giustificare il provvedimento estremo di affidamento esclusivo delle minori al padre. Veniva, pertanto, confermato l’affidamento esclusivo delle figlie al padre in quanto ritenuto un genitore maggiormente idoneo, in grado di occuparsi delle minori e supportato in tal senso da una adeguata rete familiare. 

La decisione della Corte di Cassazione

La madre proponeva, quindi, ricorso per Cassazione lamentando che la decisione di cui sopra non fosse stata supportata da alcuna approfondita indagine in merito alla idoneità genitoriale della madre ed in merito ad eventuali traumi che le minori avrebbero potuto subire a causa dell’allontanamento dalla figura materna. 

La Corte di Cassazione, con la summenzionata ordinanza, analizza quali verifiche il giudice deve necessariamente compiere prima di adottare la decisione di affidare i figli in via esclusiva ad uno solo dei genitori. 

Ebbene, gli Ermellini accolgono il ricorso presentato dalla madre e rinviano la causa alla Corte d’Appello territorialmente competente in diversa composizione per una concreta riesamina del nucleo familiare di cui in oggetto. 

Ciò in quanto i giudici di secondo grado, nel disporre l’affidamento esclusivo delle figlie al padre, non hanno valutato adeguatamente le capacità genitoriali della madre. 

Ed infatti, nell’interesse superiore dei minori, deve sempre essere assicurato il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio. Trattasi, del resto, di un diritto del minore prima ancora che dei genitori. 

Ogni decisione che si ponga il problema di privilegiare l’interesse del minore in prospettiva futura deve essere presa a seguito di un difficilissimo bilanciamento di interessi al fine di evitare di produrre al minore una sofferenza immediata qualora sia invece altamente probabile che in futuro la scelta opposta non causerebbe allo stesso un danno elevato, tale da lasciare strascichi traumatici.  

Nessuna valutazione in tal senso era stata operata dai giudici di secondo grado non essendo stata in alcun modo dimostrata la presunta inidoneità della madre che non può essere considerata tale solo per effetto della scelta sopra posta in essere.

Potrebbe anche interessarti “Figli nati da genitori non coniugati: validi gli accordi sul mantenimento solo se rispondono all’interesse della prole”. Leggi qui. 

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I nonni devono mantenere i nipoti se i genitori non possono farlo

14 Novembre 2022 Da Staff Lascia un commento

I nonni devono mantenere i nipoti se i genitori non possono farlo. A confermare il
summenzionato principio di diritto è la Suprema Corte di Cassazione con l’ordinanza
interlocutoria n. 30368/2022.

Il caso

Nell’ambito del giudizio di primo grado, il Tribunale poneva a carico dei nonni l’obbligo
di corrispondere in favore della madre del minore la somma mensile pari ad € 200,00
a titolo di contributo al mantenimento dello stesso. Tale somma, in particolare,
doveva essere corrisposta in sostituzione al mantenimento cui avrebbe dovuto
provvedere il padre attesa l’impossibilità per la madre del minore di far fronte da sola
a tutte le spese necessarie per il mantenimento del minore.
La nonna paterna in capo a cui veniva corrisposto tale obbligo impugnava la decisione
del Tribunale ma i giudici di secondo grado rigettavano la sua richiesta e così il caso
giungeva sino alla Corte di Cassazione.

La decisione della Suprema Corte

Esaminato il ricorso, i giudici della Corte di Cassazione rilevano che, secondo l’art. 316
bis c.c., i nonni sono gli ascendenti più prossimi ai minori che devono provvedere al
loro mantenimento nel caso in cui i genitori non riescano a farlo.
Ed infatti, sul punto, gli Ermellini sono chiari disponendo che
“l’obbligazione solidaristica, sussidiaria e subordinata grava proporzionalmente su tutti gli
ascendenti di pari grado indipendentemente da chi sia il genitore che ha creato
l’insorgenza dello stato di insufficienza dei mezzi economici”.
Questo obbligo, secondo la Suprema Corte, va inteso non solo nel senso
che l’obbligazione degli ascendenti è subordinata e, quindi, sussidiaria rispetto a
quella, primaria, dei genitori, ma anche nel senso che agli ascendenti non ci si possa
rivolgere per un aiuto economico per il solo fatto che uno dei due genitori non dia il
proprio contributo al mantenimento dei figli, se l’altro genitore è in grado di
mantenerli ma solo ed esclusivamente qualora i genitori non siano in grado di
adempiere al loro diretto e personale obbligo.

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Infedeltà del coniuge: la sopportazione dell’infedetà non esclude l’addebito della separazione

20 Ottobre 2022 Da Staff Lascia un commento

Infedeltà del coniuge: la sopportazione dell’infedeltà del coniuge non esclude l’addebito della separazione.
Secondo la Suprema Corte di Cassazione, l’atteggiamento di tolleranza del marito nei
confronti della moglie non è sufficiente a giustificare il rigetto della domanda di
addebito della separazione.
A stabilire il summenzionato principio di diritto è la Corte di Cassazione, con
ordinanza n. 25966 del 2 settembre 2022.

Il caso

Nell’ambito di un travagliato procedimento per separazione di un noto imprenditore
italiano, quest’ultimo adiva la Corte di Cassazione censurando la sentenza emessa
dalla Corte d’Appello di merito nella parte in cui rigettava la domanda di addebito
della separazione dallo stesso proposta nei confronti della moglie.
Ed in particolare, il ricorrente sosteneva come la tolleranza, dallo stesso manifestata,
nei confronti di precedenti relazioni extraconiugali avute dalla moglie nel corso del
matrimonio non impedisse di lamentarsi di ulteriori relazioni extraconiugali successive.
Ciò, soprattutto, quando, come nel caso in esame, le stesse siano risultate numerose
e continuate.

La decisione della Corte di Cassazione

Ebbene, i giudici di legittimità ritengono fondata la censura mossa dal ricorrente.
Ed in particolare, ad avviso degli Ermellini, l’accettazione da parte del ricorrente di
comportamenti lesivi del dovere di fedeltà tenuti dalla moglie anni prima della
proposizione della domanda di separazione non può escludere di far valere, quale
causa di addebito, analoghi comportamenti tenuti successivamente dalla donna.
In tema di separazione personale dei coniugi, la giurisprudenza sostiene che la
dichiarazione di addebito implica la prova che l’irreversibile crisi coniugale sia da
ricondurre in via esclusiva al comportamento, tenuto da uno dei coniugi, che sia
consapevolmente e volontariamente contrario ai doveri nascenti del matrimonio.
Tale principio è, peraltro, applicabile anche all’inosservanza dell’obbligo di fedeltà
coniugale, ritenuta sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge
responsabile.

Alla stregua di tali pacifici assunti, la Corte di Cassazione afferma che la tolleranza
manifestata dal ricorrente nei confronti della relazione extraconiugale intrapresa dalla
moglie alcuni anni prima della proposizione della domanda di separazione non
esclude la possibilità di fare valere, quale causa di addebito, analoghi comportamenti
tenuti successivamente dalla donna.
Ciò in quanto, a tale ultimo fine, occorre prendere in esame la successiva evoluzione
del rapporto coniugale accertando se si siano verificate nuove violazioni del dovere di
fedeltà e quale sia stata la reazione dell’altro coniuge.
Ed in particolare, ciò che è necessario verificare è se a seguito della cessazione della
predetta relazione la vita coniugale sia ripresa regolarmente, senza ulteriori violazioni
del dovere di fedeltà, oppure se la donna abbia intrapreso altre relazioni
extraconiugali senza che il marito vi desse importanza.
Solo ed esclusivamente in tali ipotesi, secondo gli Ermellini, si sarebbe potuto
concludere che non erano state le iniziali infedeltà ad impedire la prosecuzione della
convivenza, divenuta intollerabile per altre ragioni, che avevano fatto venir meno
l’affectio coniugalis.

Potrebbe interessarti “Addebito: un nuovo innamoramento non giustifica la cessazione della convivenza coniugale”. Leggi qui.

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ACCETTA E SALVA
Diritto del lavoro

Lo Studio Legale Arcoleo assiste i propri clienti nei vari ambiti del diritto del lavoro, del diritto sindacale e della previdenza sociale, fornendo consulenza sia in ambito stragiudiziale che giudiziale e con riferimento all’istaurazione, allo svolgimento ed alla cessazione del rapporto di lavoro.

A tal fine, lo Studio si avvale di molteplici apporti specialistici (consulenti del lavoro, commercialisti) anche nelle questioni che investono discipline complementari, per garantire alla clientela un’assistenza ancora più completa grazie ad un miglior coordinamento tra le diverse professionalità.

Diritto penale di famiglia

L’Avv. Antonella Arcoleo coadiuvato  da altri professionisti come avvocati psicologi e mediatori è da sempre impegnato in prima linea per difendere e tutelare i diritti fondamentali della persona in caso di abusi o violenze e offre consulenza e assistenza legale.

Assistenza alle aziende

Lo Studio Legale Arcoleo vanta un’importante esperienza nell’assistenza alle imprese.

Alla base del successo di ogni azienda vi è la particolare attenzione per gli aspetti legali strettamente correlati al business che se correttamente e tempestivamente curati garantiscono alle imprese una sensibile riduzione del contenzioso.

Lo Studio Legale Arcoleo garantisce ai propri clienti attività di consulenza costante e continuativa anche a mezzo telefono e tramite collegamento da remoto.