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divorzio

Lavoro casalingo? l’assegno di mantenimento deve essere più alto

13 Gennaio 2023 Da Staff Lascia un commento

Lavoro casalingo? l’assegno di mantenimento  per la ex moglie deve essere più alto ciò in quanto tale lavoro va qualificato come contributo alla conduzione familiare.

A stabilire il superiore principio di diritto è la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 24826 del 17 Agosto 2022.

Ed in particolare, gli Ermellini ritengono che occuparsi della casa, consentendo al coniuge di svolgere la sua attività senza altre incombenze, è un lavoro che merita il dovuto riconoscimento al momento della separazione e del divorzio.

Il giudice non può, infatti, stabilire un assegno che sia solo assistenziale, senza considerare il contributo che la donna da alla formazione del patrimonio comune o del marito. Partendo da questo principio la Cassazione con la sentenza sopra richiamata bacchetta la Corte d’appello che aveva avallato il taglio dell’assegno in favore della ex moglie riducendolo da € 600,00 ad € 250,00.

L’iter logico giuridico seguito dai giudici di merito

I giudici di merito, rilevavano che la signora aveva 52 anni, non aveva problemi di salute e, in più abitava in Sardegna, regione turistica nella quale non mancavano occasioni di lavoro. Alla luce di ciò la Corte territoriale riteneva che non sussistessero nel caso di specie i presupposti affinché la donna fosse totalmente mantenuta dal marito, avendo diritto solo ad una somma che l’aiutasse a raggiungere l’indipendenza economica.

Peraltro in sede istruttoria era emerso che il suo impegno, in assenza di figli, durante il non lungo matrimonio, durato 8 anni, era stato speso solo per la casa.

La decisione della Corte di Cassazione

La donna ritenendo illegittimo il provvedimento che riduceva il suo mantenimento adiva la Corte di Cassazione.

La Suprema Corte, facendo un ragionamento completamente diverso, ribaltava la decisione della Corte di Appello.

Sul piatto della bilancia, i giudici di legittimità mettono la diversa situazione economica della ex coppia. Il marito con uno stipendio di 1.900 euro, proprietario di un immobile e di due case in nuda proprietà. La signora, di contro, non aveva mai lavorato, per espressa volontà del marito, e non possedeva qualifiche o professionalità da spendere nel mondo del lavoro dopo i 50 anni, nonostante la donna fosse iscritta nelle liste di collocamento.

Secondo gli Ermellini, in ogni caso, la Corte di Appello aveva errato nel non considerare un lavoro a tutti gli effetti il lavoro casalingo.

Ed in particolare, la cura della casa e quindi il lavoro casalingo è da considerarsi un contributo alla conduzione familiare che ha, tra l’altro, permesso all’ex marito di dedicarsi alla sua occupazione.

Alla luce di ciò, la Suprema corte ha annullato con rinvio per un nuovo giudizio avanti la Corte di Appello, invitando la predetta  a decidere per un assegno compensativo, che tenga conto del contributo dato dalla ricorrente alla vita familiare.

Potrebbe anche interessarti “Assegno divorzile: il giudice deve contemporaneamente prendere in esame tutti i parametri valutativi indicati dall’art. art. 5 della legge 898/1970?”. Leggi qui.

Archiviato in:I nostri articoli, Legge e Giurisprudenza Contrassegnato con: assegno di divorzio, assegno di mantenimento, casalinga, divorzio, moglie, moglie casalinga, separazione

Assegno divorzile: il giudice deve contemporaneamente prendere in esame tutti i parametri valutativi indicati dall’art. art. 5 della legge 898/1970?

13 Dicembre 2022 Da Staff Lascia un commento

Assegno divorzile: il giudice deve contemporaneamente prendere in esame tutti i parametri valutativi indicati dall’art. 5 della l. n. 898/1970?

Ad affrontare tale questione è la Corte di Cassazione che, con ordinanza n. 26672 del 2022, ricorda che ogni assegno divorzile ha una propria natura e torna a ribadire che il giudice può decidere di valorizzare in misura preponderante, tra i vari criteri legali utilizzabili ai fini della quantificazione dello stesso, quello ritenuto più confacente al caso concreto.

Il caso

A seguito della pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale poneva a carico dell’ex marito il pagamento di un assegno divorzile in favore della ex moglie pari ad € 1.300,00 mensili. Tale decisione veniva confermata anche in sede di appello in quanto la Corte di merito, pur riconoscendo che la quantificazione dell’assegno divorzile debba tenere conto dei parametri indicati dall’art. 5 della l. n.
898/1970, riteneva di dover dare rilievo al consistente divario reddituale esistente tra le parti, specie in considerazione della malattia da cui era affetta la donna.

Avverso tale statuizione, l’uomo proponeva ricorso per Cassazione lamentando che la Corte d’Appello non avrebbe effettuato un adeguato bilanciamento di tutti i parametri indicati dalla suddetta norma giuridica soffermandosi unicamente sulla malattia di cui era affetta la ex moglie e sulla disparità reddituale esistente tra gli ex coniugi.
In particolare, secondo il ricorrente, il tetto massimo della misura dell’assegno divorzile era stato sicuramente superato, in quanto l’importo attribuito a titolo dello stesso andava ad aggiungersi alla pensione percepita dalla ex moglie, nonché al godimento integrale, da parte di quest’ultima, della proprietà della casa familiare, di cui era divenuta titolare esclusiva, a seguito della cessione da parte dell’uomo della quota di sua spettanza in adempimento degli accordi di separazione.

La decisione della Suprema Corte

Gli Ermellini si soffermano, quindi, sul seguente quesito giuridico: ai fini della quantificazione dell’assegno divorzile il giudice deve tenere conto di tutti i parametri di cui alla l. n. 898/1970, art. 5, comma 6, oppure può attribuire valore solo ad alcuni di essi escludendo, quindi, gli altri?

La Suprema Corte, fin da epoca risalente, ha avuto più volte modo di chiarire che i giudici di merito, nel quantificare l’importo dell’assegno divorzile, non è tenuto a prendere in considerazione tutti i criteri indicati dall’art. 5, l. n. 898/1970, essendo, piuttosto, necessario che lo stesso giustifichi in modo adeguato le sue valutazioni.

Pertanto, deve escludersi la necessità di una puntuale e contemporanea considerazione da parte del giudice di tutti i parametri di riferimento indicati nella legge divorzile.
Di conseguenza, secondo la Cassazione, il giudice di merito può anche prescindere dal
prendere in considerazione taluni parametri e tale scelta discrezionale non è sindacabile in sede di legittimità.
Ciò posto, nel caso di specie, la Corte di appello ha deciso, da un lato, di porre al centro il consistente divario reddituale esistente tra le parti e, dall’altro lato, la particolare situazione di salute in cui versava la ex moglie.
Quest’ultima, infatti, poteva contare come introito sull’esclusivo assegno pensionistico e, data la sua grave invalidità, si trovava, in ogni caso, nella condizione di non avere risorse sufficienti per far fronte alle sue necessità di vita condizionate dalla malattia,

In conclusione, secondo la Cassazione, la Corte di merito ha espresso un giudizio consentito e, poiché adeguatamente motivato, neppure sindacabile in sede di legittimità.

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Archiviato in:I nostri articoli, Legge e Giurisprudenza Contrassegnato con: assegno di divorzio, assegno di mantenimento, assegno divorzile, divorzio, ex marito, ex moglie, separazione

In tema di affidamento, il criterio fondamentale è costituito dall’esclusivo interesse morale e materiale della prole

25 Novembre 2022 Da Staff Lascia un commento

In tema di affidamento, il criterio fondamentale è costituito dall’esclusivo interesse morale e materiale della prole.

A confermare il summenzionato principio di diritto è la Suprema Corte di Cassazione con ordinanza n. 21425 del 6 luglio 2022.

Il caso

Una coppia, dopo un periodo di frequentazione, intraprendeva una convivenza e dalla loro relazione sentimentale nascevano due figlie. 

La madre, qualche anno dopo e senza il consenso del padre, si trasferiva con le figlie minori presso l’abitazione dei propri genitori a circa 70 km di distanza dalla casa familiare.

Il Tribunale territorialmente competente, adito dal padre, disponeva a causa di tale condotta, l’affido esclusivo delle figlie minori in favore di quest’ultimo con collocamento prevalente presso la di lui casa familiare. Il Tribunale incaricava, inoltre, i Servizi Sociali di monitorare il nucleo familiare.

La madre impugnava innanzi alla Corte d’Appello territorialmente competente il suddetto provvedimento di primo grado ma i giudici di secondo grado respingevano il reclamo dalla stessa proposto. Ciò in quanto i giudici sostenevano che lo stato di sofferenza morale e psicologico di cui era affetta la madre delle minori non poteva giustificare una scelta talmente grave ed arbitraria come quella di sradicare le figlie dal consueto ambiente familiare, amicale e scolastico, senza il consenso dell’altro genitore.

La Corte d’Appello affermava che la decisione della madre di allontanarsi con le bambine dalla casa familiare, senza il consenso paterno, era tale da giustificare il provvedimento estremo di affidamento esclusivo delle minori al padre. Veniva, pertanto, confermato l’affidamento esclusivo delle figlie al padre in quanto ritenuto un genitore maggiormente idoneo, in grado di occuparsi delle minori e supportato in tal senso da una adeguata rete familiare. 

La decisione della Corte di Cassazione

La madre proponeva, quindi, ricorso per Cassazione lamentando che la decisione di cui sopra non fosse stata supportata da alcuna approfondita indagine in merito alla idoneità genitoriale della madre ed in merito ad eventuali traumi che le minori avrebbero potuto subire a causa dell’allontanamento dalla figura materna. 

La Corte di Cassazione, con la summenzionata ordinanza, analizza quali verifiche il giudice deve necessariamente compiere prima di adottare la decisione di affidare i figli in via esclusiva ad uno solo dei genitori. 

Ebbene, gli Ermellini accolgono il ricorso presentato dalla madre e rinviano la causa alla Corte d’Appello territorialmente competente in diversa composizione per una concreta riesamina del nucleo familiare di cui in oggetto. 

Ciò in quanto i giudici di secondo grado, nel disporre l’affidamento esclusivo delle figlie al padre, non hanno valutato adeguatamente le capacità genitoriali della madre. 

Ed infatti, nell’interesse superiore dei minori, deve sempre essere assicurato il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio. Trattasi, del resto, di un diritto del minore prima ancora che dei genitori. 

Ogni decisione che si ponga il problema di privilegiare l’interesse del minore in prospettiva futura deve essere presa a seguito di un difficilissimo bilanciamento di interessi al fine di evitare di produrre al minore una sofferenza immediata qualora sia invece altamente probabile che in futuro la scelta opposta non causerebbe allo stesso un danno elevato, tale da lasciare strascichi traumatici.  

Nessuna valutazione in tal senso era stata operata dai giudici di secondo grado non essendo stata in alcun modo dimostrata la presunta inidoneità della madre che non può essere considerata tale solo per effetto della scelta sopra posta in essere.

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Archiviato in:I nostri articoli, Legge e Giurisprudenza Contrassegnato con: affidamento condiviso, affidamento esclusivo, divorzio, figli minori, minorenne, separazione, superiore interesse

I nonni devono mantenere i nipoti se i genitori non possono farlo

14 Novembre 2022 Da Staff Lascia un commento

I nonni devono mantenere i nipoti se i genitori non possono farlo. A confermare il
summenzionato principio di diritto è la Suprema Corte di Cassazione con l’ordinanza
interlocutoria n. 30368/2022.

Il caso

Nell’ambito del giudizio di primo grado, il Tribunale poneva a carico dei nonni l’obbligo
di corrispondere in favore della madre del minore la somma mensile pari ad € 200,00
a titolo di contributo al mantenimento dello stesso. Tale somma, in particolare,
doveva essere corrisposta in sostituzione al mantenimento cui avrebbe dovuto
provvedere il padre attesa l’impossibilità per la madre del minore di far fronte da sola
a tutte le spese necessarie per il mantenimento del minore.
La nonna paterna in capo a cui veniva corrisposto tale obbligo impugnava la decisione
del Tribunale ma i giudici di secondo grado rigettavano la sua richiesta e così il caso
giungeva sino alla Corte di Cassazione.

La decisione della Suprema Corte

Esaminato il ricorso, i giudici della Corte di Cassazione rilevano che, secondo l’art. 316
bis c.c., i nonni sono gli ascendenti più prossimi ai minori che devono provvedere al
loro mantenimento nel caso in cui i genitori non riescano a farlo.
Ed infatti, sul punto, gli Ermellini sono chiari disponendo che
“l’obbligazione solidaristica, sussidiaria e subordinata grava proporzionalmente su tutti gli
ascendenti di pari grado indipendentemente da chi sia il genitore che ha creato
l’insorgenza dello stato di insufficienza dei mezzi economici”.
Questo obbligo, secondo la Suprema Corte, va inteso non solo nel senso
che l’obbligazione degli ascendenti è subordinata e, quindi, sussidiaria rispetto a
quella, primaria, dei genitori, ma anche nel senso che agli ascendenti non ci si possa
rivolgere per un aiuto economico per il solo fatto che uno dei due genitori non dia il
proprio contributo al mantenimento dei figli, se l’altro genitore è in grado di
mantenerli ma solo ed esclusivamente qualora i genitori non siano in grado di
adempiere al loro diretto e personale obbligo.

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Archiviato in:I nostri articoli, Legge e Giurisprudenza Contrassegnato con: divorzio, figli non autosufficienti, mantenimento, mantenimento ascendenti, mantenimento figli, separazione

Infedeltà del coniuge: la sopportazione dell’infedetà non esclude l’addebito della separazione

20 Ottobre 2022 Da Staff Lascia un commento

Infedeltà del coniuge: la sopportazione dell’infedeltà del coniuge non esclude l’addebito della separazione.
Secondo la Suprema Corte di Cassazione, l’atteggiamento di tolleranza del marito nei
confronti della moglie non è sufficiente a giustificare il rigetto della domanda di
addebito della separazione.
A stabilire il summenzionato principio di diritto è la Corte di Cassazione, con
ordinanza n. 25966 del 2 settembre 2022.

Il caso

Nell’ambito di un travagliato procedimento per separazione di un noto imprenditore
italiano, quest’ultimo adiva la Corte di Cassazione censurando la sentenza emessa
dalla Corte d’Appello di merito nella parte in cui rigettava la domanda di addebito
della separazione dallo stesso proposta nei confronti della moglie.
Ed in particolare, il ricorrente sosteneva come la tolleranza, dallo stesso manifestata,
nei confronti di precedenti relazioni extraconiugali avute dalla moglie nel corso del
matrimonio non impedisse di lamentarsi di ulteriori relazioni extraconiugali successive.
Ciò, soprattutto, quando, come nel caso in esame, le stesse siano risultate numerose
e continuate.

La decisione della Corte di Cassazione

Ebbene, i giudici di legittimità ritengono fondata la censura mossa dal ricorrente.
Ed in particolare, ad avviso degli Ermellini, l’accettazione da parte del ricorrente di
comportamenti lesivi del dovere di fedeltà tenuti dalla moglie anni prima della
proposizione della domanda di separazione non può escludere di far valere, quale
causa di addebito, analoghi comportamenti tenuti successivamente dalla donna.
In tema di separazione personale dei coniugi, la giurisprudenza sostiene che la
dichiarazione di addebito implica la prova che l’irreversibile crisi coniugale sia da
ricondurre in via esclusiva al comportamento, tenuto da uno dei coniugi, che sia
consapevolmente e volontariamente contrario ai doveri nascenti del matrimonio.
Tale principio è, peraltro, applicabile anche all’inosservanza dell’obbligo di fedeltà
coniugale, ritenuta sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge
responsabile.

Alla stregua di tali pacifici assunti, la Corte di Cassazione afferma che la tolleranza
manifestata dal ricorrente nei confronti della relazione extraconiugale intrapresa dalla
moglie alcuni anni prima della proposizione della domanda di separazione non
esclude la possibilità di fare valere, quale causa di addebito, analoghi comportamenti
tenuti successivamente dalla donna.
Ciò in quanto, a tale ultimo fine, occorre prendere in esame la successiva evoluzione
del rapporto coniugale accertando se si siano verificate nuove violazioni del dovere di
fedeltà e quale sia stata la reazione dell’altro coniuge.
Ed in particolare, ciò che è necessario verificare è se a seguito della cessazione della
predetta relazione la vita coniugale sia ripresa regolarmente, senza ulteriori violazioni
del dovere di fedeltà, oppure se la donna abbia intrapreso altre relazioni
extraconiugali senza che il marito vi desse importanza.
Solo ed esclusivamente in tali ipotesi, secondo gli Ermellini, si sarebbe potuto
concludere che non erano state le iniziali infedeltà ad impedire la prosecuzione della
convivenza, divenuta intollerabile per altre ragioni, che avevano fatto venir meno
l’affectio coniugalis.

Potrebbe interessarti “Addebito: un nuovo innamoramento non giustifica la cessazione della convivenza coniugale”. Leggi qui.

Archiviato in:I nostri articoli, Legge e Giurisprudenza Contrassegnato con: addebito separazione, divorzio, pronuncia di addebito, separazione, separazione giudiziale, tradimento

Assegno di divorzio, se l’ex coniuge è malato prevale la disparità patrimoniale

16 Settembre 2022 Da Staff Lascia un commento

Assegno di divorzio: se l’ex coniuge è malato prevale la disparità patrimoniale.
Secondo la Suprema Corte di Cassazione, nella definizione del quantum dell’assegno
di mantenimento, il giudice può attribuire maggiore rilevanza ad alcuni dei parametri
previsti dall’art. 5, comma 6, della L. n. 898/1970, trascurandone altri.
A stabilire il summenzionato principio di diritto è la Corte di Cassazione, con la
sentenza n. 26672 del 9 settembre 2022.


Il caso

Un uomo veniva condannato al pagamento, in favore della ex moglie, di un assegno
divorzile pari ad € 1.300,00 mensili da rivalutarsi annualmente secondo gli indici
ISTAT.
Il predetto proponeva ricorso in Cassazione facendo leva sul fatto che la ex moglie, sia
pure affetta già nel corso del matrimonio da una grave malattia, percepiva una
modesta pensione e, pertanto, non avesse diritto a percepire un assegno divorzile
così elevato.


La decisione della Suprema Corte

La Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione ha respinto il ricorso dell’ex marito
stabilendo il principio secondo cui, nel caso concreto, andasse privilegiato l’aspetto
della disparità patrimoniale. Ciò soprattutto in virtù del fatto che la ex moglie soffrisse
già da anni di una grave malattia, c.d. infiammazione demielinizzante, oltre a
percepire una modestissima pensione.
Ebbene, per la Suprema Corte, nella quantificazione dell’assegno di divorzio, il giudice
non è obbligato a tenere contemporaneamente in considerazione tutti i parametri di
riferimento indicati dall’art. 5 della legge sul divorzio.
Il giudice, infatti, secondo gli Ermellini, può anche prescindere da alcuni di detti
parametri purché, beninteso, giustifichi e motivi adeguatamente le proprie
valutazioni. Trattasi, in tal caso, di una “scelta discrezionale non sindacabile in sede di
legittimità”.
È proprio quanto effettuato, nel caso concreto, dal giudice di merito, il quale ha
attribuito maggiore rilievo ad alcuni dei summenzionati parametri in luogo di altri.
La sentenza impugnata, infatti, dopo avere evidenziato che le parti erano state
sposate per 11 anni, ha evidenziato che la donna era afflitta da tempo da una malattia degenerativa; con un decorso caratterizzato nel tempo da ricadute che hanno compromesso i sistemi neurologici motori, cerebrali, sensitivi e sfinterici.
Tale aspetto, pertanto, fa sì che i parametri relativi all’apporto di contributo personale ed
economico alla conduzione della famiglia ed alla formazione del patrimonio personale o
comune debbano considerarsi, nel caso di specie, irrilevanti.

Per tale motivo, la Suprema
Corte ha respinto le motivazioni presentate dal ricorrente e confermato l’ammontare
dell’assegno divorzile nei confronti dell’ex moglie.

Potrebbe anche interessarti: “Assegno di mantenimento diminuiti se la moglie sceglie il part-time”. Leggi qui. 

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Sindrome della madre malevola: non basta a giustificare l’affido super esclusivo al padre

23 Giugno 2022 Da Staff Lascia un commento

Sindrome della madre malevola non basta a giustificare l’affido super esclusivo al padre.

La sindrome da alienazione parentale (PAS) o la sindrome della madre malevola (MMS) non sono qualificabili quali patologie riconosciute scientificamente e non possono, quindi, giustificare un provvedimento di affido super esclusivo a favore di un coniuge. Così decide la Corte di Cassazione con l’ordinanza del 17.05.2021 n. 13217.

Il caso

Il Tribunale concedeva l’affido esclusivo della minore al padre, regolamentando le visite della madre. Il padre proponeva reclamo e chiedeva l’affido super esclusivo, oltre a visite della madre protette con l’ausilio degli assistenti sociali.

La madre si opponeva e chiedeva l’affido condiviso, con collocamento prevalente presso di sé. 

La Corte di Appello Territoriale accoglieva il reclamo del padre e disponeva l’affido super esclusivo in suo favore sulla base delle risultanze delle CTU, da cui emergeva che la donna fosse affetta dalla sindrome della madre malevola (cosiddetta MMS).

La madre ricorre in Cassazione contro la decisione della Corte di Appello. 

La decisione della Suprema Corte

Ad avviso della Suprema Corte, il giudice di merito ha disposto l’affidamento super esclusivo a favore del padre non curandosi di quale fosse il migliore sviluppo della personalità del minore. Ed inoltre, non effettuando una prognosi sulle capacità genitoriali della madre, il giudice di merito si è soffermato soltanto su degli episodi insufficienti a fondare il provvedimento di affidamento super esclusivo.

Secondo gli ermellini, la sindrome della madre malevola non è riconosciuta scientificamente. Pertanto la valutazione del giudice avrebbe dovuto essere più ampia e considerare ogni aspetto, compresa la possibilità della madre di intraprendere un percorso di recupero delle proprie capacità genitoriali.

Non è, infatti, corretto attribuire rilevanza ai limiti caratteriali della stessa considerando che ella non ha dimostrato trascuratezza o incuria verso al figlia. 

Secondo la Corte, i fatti ascritti alla ricorrente non presentano una gravità tale da legittimare il provvedimento di super affido, non essendo state accertate irrecuperabili carenze di espressione delle capacità genitoriali.

Il giudice di merito ha, inoltre, trascurato le conseguenze di una simile decisione sulla minore. Decisione che causerebbe una rilevante attenuazione dei rapporti con l’altro genitore che provoca un provvedimento di super affido. 

Il giudice deve evitare di adottare soluzioni prive del necessario conforto scientifico e potenzialmente produttive di danni ancora più gravi di quelli che intendono scongiurare.

Il criterio fondamentale è l’interesse del minore

Il giudice è tenuto ad analizzare la condotta genitoriale e acclarare la sussistenza di effettive carenze. Nel caso di specie, si è fatto genericamente riferimento a condotte scorrette tenute dalla donna. Si è fatto riferimento anche alle gravi ripercussioni sulla bambina, senza in realtà indicare i pregiudizi specifici patiti dalla minore. Il giudice deve sempre attenersi al criterio fondamentale rappresentato dal superiore interesse del minore, privilegiando il genitore che riduce il pregiudizio che il bambino può subire in seguito alla disgregazione della famiglia. Trattasi di un giudizio prognostico incentrato sulle capacità affettive del genitore, non suscettibile di censure in sede di legittimità.

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Figli nati da genitori non coniugati: validi gli accordi sul mantenimento solo se rispondono all’interesse della prole

18 Maggio 2022 Da Staff Lascia un commento

Figli nati da genitori non coniugati: valido l’accordo sul mantenimento solo se risponde all’interesse della prole. 

I genitori non coniugati, alla cessazione della convivenza, possono raggiungere un accordo circa il mantenimento dei figli. Tale pattuizione è valida anche in assenza di un previo controllo giudiziale. Si tratta di un negozio espressione dell’autonomia privata che, tuttavia, trova un limite invalicabile nella effettiva corrispondenza delle pattuizioni nell’interesse morale e materiale dei figli.

Il giudice eventualmente adito dalle parti può, quindi, integrare o modificare l’accordo. Così ha deciso la Corte di Cassazione con l’ordinanza dell’11 gennaio 2022 n. 663. 

Il caso

Dopo aver cessato la convivenza more uxorio, le parti concludevano un accordo avente ad oggetto il mantenimento del figlio minore nato dalla loro relazione. In forza del predetto, il padre trasferiva la proprietà di un immobile al figlio ottenendo in cambio l’esonero dagli obblighi di contribuzione, fatta eccezione per le spese scolastiche e di abbigliamento.

La madre, però, successivamente agiva in giudizio contro l’ex convivente per ottenere la condanna del padre a corrisponderle un contributo mensile a titolo di mantenimento del minore. 

Il giudice, preso atto dell’accordo stipulato tra le parti, dichiarava inammissibile la richiesta della madre, precisando che il padre si sarebbe dovuto limitare a contribuire alle spese straordinarie sostenute nell’interesse del figlio nella misura del 50%

La donna ricorreva in appello 

In sede di gravame, però, la Corte d’Appello accoglieva il reclamo della madre e stabiliva un contributo al mantenimento a carico del padre nella misura di € 250,00 mensili. Ciò in quanto, secondo il giudice di merito, l’accordo negoziale tra le parti era da considerarsi inefficace a causa di un controllo giudiziario dello stesso. Ed inoltre, il trasferimento di proprietà effettuato dal padre risultava insufficiente al soddisfacimento delle esigenze del figlio, ormai divenuto adolescente. 

Si giunge così in Cassazione.

La decisione della Suprema Corte 

Gli ermellini rigettavano il ricorso presentato dal padre avverso il provvedimento di secondo grado. La Suprema Corte stabiliva che, in tema di mantenimento di figli nati fuori dal matrimonio, anche un accordo negoziale intervenuto tra i genitori è valido ed efficace poiché espressione dell’autonomia privata.

Secondo gli ermellini, però, l’autonomia contrattuale delle parti assolve all’unico obiettivo di regolare le concrete modalità di adempimento di una prestazione dovuta per legge. Trattasi, cioè, dell’obbligo posto in capo a entrambi i genitori di rispettare i doveri sanciti dall’art. 147 c.c. nei confronti dei figli.

E’ per tale ragione che l’autonomia negoziale dei genitori incontra un limite nell’effettiva corrispondenza delle pattuizioni contenute nell’accordo all’interesse morale e materiale della prole. 

Il giudice non è vincolato dalle richieste o dagli accordi tra i genitori

Per la Suprema Corte, il giudice è libero di adottare tutti quei provvedimenti che reputa più idonei alla tutela dell’interesse della prole ai sensi dell’art. 337 ter c.c.

Da ciò discende che il giudice non è in alcun modo vincolato alle richieste avanzate dai genitori o agli accordi sottoscritti tra gli stessi. Per tale motivo, l’esistenza di un accordo negoziale tra i genitori non è impeditiva di una diversa regolamentazione qualora il giudice la ritenga corrispondente all’interesse del minore. 

Potrebbe anche interessarti: “L’affidamento condiviso non presuppone la frequentazione paritaria”. Leggi qui. 

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ACCETTA E SALVA
Diritto del lavoro

Lo Studio Legale Arcoleo assiste i propri clienti nei vari ambiti del diritto del lavoro, del diritto sindacale e della previdenza sociale, fornendo consulenza sia in ambito stragiudiziale che giudiziale e con riferimento all’istaurazione, allo svolgimento ed alla cessazione del rapporto di lavoro.

A tal fine, lo Studio si avvale di molteplici apporti specialistici (consulenti del lavoro, commercialisti) anche nelle questioni che investono discipline complementari, per garantire alla clientela un’assistenza ancora più completa grazie ad un miglior coordinamento tra le diverse professionalità.

Diritto penale di famiglia

L’Avv. Antonella Arcoleo coadiuvato  da altri professionisti come avvocati psicologi e mediatori è da sempre impegnato in prima linea per difendere e tutelare i diritti fondamentali della persona in caso di abusi o violenze e offre consulenza e assistenza legale.

Assistenza alle aziende

Lo Studio Legale Arcoleo vanta un’importante esperienza nell’assistenza alle imprese.

Alla base del successo di ogni azienda vi è la particolare attenzione per gli aspetti legali strettamente correlati al business che se correttamente e tempestivamente curati garantiscono alle imprese una sensibile riduzione del contenzioso.

Lo Studio Legale Arcoleo garantisce ai propri clienti attività di consulenza costante e continuativa anche a mezzo telefono e tramite collegamento da remoto.