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figlio minore

Figli nati da genitori non coniugati: validi gli accordi sul mantenimento solo se rispondono all’interesse della prole

18 Maggio 2022 Da Staff Lascia un commento

Figli nati da genitori non coniugati: valido l’accordo sul mantenimento solo se risponde all’interesse della prole. 

I genitori non coniugati, alla cessazione della convivenza, possono raggiungere un accordo circa il mantenimento dei figli. Tale pattuizione è valida anche in assenza di un previo controllo giudiziale. Si tratta di un negozio espressione dell’autonomia privata che, tuttavia, trova un limite invalicabile nella effettiva corrispondenza delle pattuizioni nell’interesse morale e materiale dei figli.

Il giudice eventualmente adito dalle parti può, quindi, integrare o modificare l’accordo. Così ha deciso la Corte di Cassazione con l’ordinanza dell’11 gennaio 2022 n. 663. 

Il caso

Dopo aver cessato la convivenza more uxorio, le parti concludevano un accordo avente ad oggetto il mantenimento del figlio minore nato dalla loro relazione. In forza del predetto, il padre trasferiva la proprietà di un immobile al figlio ottenendo in cambio l’esonero dagli obblighi di contribuzione, fatta eccezione per le spese scolastiche e di abbigliamento.

La madre, però, successivamente agiva in giudizio contro l’ex convivente per ottenere la condanna del padre a corrisponderle un contributo mensile a titolo di mantenimento del minore. 

Il giudice, preso atto dell’accordo stipulato tra le parti, dichiarava inammissibile la richiesta della madre, precisando che il padre si sarebbe dovuto limitare a contribuire alle spese straordinarie sostenute nell’interesse del figlio nella misura del 50%

La donna ricorreva in appello 

In sede di gravame, però, la Corte d’Appello accoglieva il reclamo della madre e stabiliva un contributo al mantenimento a carico del padre nella misura di € 250,00 mensili. Ciò in quanto, secondo il giudice di merito, l’accordo negoziale tra le parti era da considerarsi inefficace a causa di un controllo giudiziario dello stesso. Ed inoltre, il trasferimento di proprietà effettuato dal padre risultava insufficiente al soddisfacimento delle esigenze del figlio, ormai divenuto adolescente. 

Si giunge così in Cassazione.

La decisione della Suprema Corte 

Gli ermellini rigettavano il ricorso presentato dal padre avverso il provvedimento di secondo grado. La Suprema Corte stabiliva che, in tema di mantenimento di figli nati fuori dal matrimonio, anche un accordo negoziale intervenuto tra i genitori è valido ed efficace poiché espressione dell’autonomia privata.

Secondo gli ermellini, però, l’autonomia contrattuale delle parti assolve all’unico obiettivo di regolare le concrete modalità di adempimento di una prestazione dovuta per legge. Trattasi, cioè, dell’obbligo posto in capo a entrambi i genitori di rispettare i doveri sanciti dall’art. 147 c.c. nei confronti dei figli.

E’ per tale ragione che l’autonomia negoziale dei genitori incontra un limite nell’effettiva corrispondenza delle pattuizioni contenute nell’accordo all’interesse morale e materiale della prole. 

Il giudice non è vincolato dalle richieste o dagli accordi tra i genitori

Per la Suprema Corte, il giudice è libero di adottare tutti quei provvedimenti che reputa più idonei alla tutela dell’interesse della prole ai sensi dell’art. 337 ter c.c.

Da ciò discende che il giudice non è in alcun modo vincolato alle richieste avanzate dai genitori o agli accordi sottoscritti tra gli stessi. Per tale motivo, l’esistenza di un accordo negoziale tra i genitori non è impeditiva di una diversa regolamentazione qualora il giudice la ritenga corrispondente all’interesse del minore. 

Potrebbe anche interessarti: “L’affidamento condiviso non presuppone la frequentazione paritaria”. Leggi qui. 

Archiviato in:I nostri articoli, Legge e Giurisprudenza Contrassegnato con: accordi tra conviventi, convivenza, divorzio, figlio minore, mantenimento figlio, separazione

Condannato il padre che non prova la impossibilità ad adempiere

8 Ottobre 2021 Da Staff Lascia un commento

Condannato il padre che non prova la sua impossibilità economica a provvedere al versamento del mantenimento per il figlio.

La Cassazione, con la recente sentenza n. 33932 del 2021, afferma la responsabilità penale del padre che dopo la separazione non provvede al mantenimento del figlio. Per gli Ermellini, ai fini della esclusione della condanna, non rileva la situazione di difficoltà economica, necessitando una prova più rigorosa: ossia l’impossidenza o una condizione di precarietà.

Il caso

Un uomo veniva condannato in sede penale alla pena di mesi 4 di reclusione e alla multa di € 400,00 per il reato di cui all’art 570 comma 2, n. 2 c.p. Tale norma punisce chi viola gli obblighi di assistenza familiare. Nel caso di specie, in sede dibattimentale, emergeva che l’imputato non aveva versato l’assegno di mantenimento  per del figlio disposto in sede di separazione. La condanna veniva confermata anche in appello.

L’uomo ricorreva in Cassazione

L’imputato, ritenendo errata la decisione, ricorreva in Cassazione sollevando tre motivi di impugnazione:

  • con il primo rilevava l’insussistenza dell’elemento oggettivo e soggettivo del reato. In particolare lamentava che i giudici di merito non avevano effettivamente appurato se al minore fossero realmente mancati i mezzi di sussistenza.

  • Con il secondo lamentava il mancato accertamento delle sue condizioni economiche.

  • Con il terzo invece rilevava che le sue condizioni economiche rendevano di fatto impossibile adempiere e pertanto aveva errato a subordinare la sospensione condizionale della pena al pagamento del risarcimento del danno in favore della parte civile.

La decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte di Cassazione adita rigettava però il ricorso dell’imputato per genericità e infondatezza.

Per gli Ermellini, infatti, contrariamente a quanto sostenuto dall’imputato, il reato contestato era integrato in tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi. Dalle dichiarazioni testimoniali emergeva che durante il coniugio l’imputato provvedeva  alla famigli sospendendo i versamenti solo successivamente alla separazione.

Peraltro, gli Ermellini  sottolineavano che nella minore età del minore è insito lo stato di bisogno, non essendo capace un bambino di provvedere  provvedere autonomamente alle proprie necessità. Infine, l’imputato non aveva dimostrato la sua impossibilità di pagare il mantenimento del figlio. Le dichiarazioni erano rimaste mere affermazioni labiali prive di riscontri probatori.

Per le superiori ragioni pertanto la Suprema Corte rigettava il ricorso e la sentenza diventava definitiva. Potrebbe anche interessarti: “Mantenimento per il figlio che lascia il lavoro per studiare”. Leggi qui. 

 

 





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Lasciare le figlie dai nonni: il genitore rischia di perdere il loro affidamento (Cass. Civ. sent. n.1191/2020)

23 Gennaio 2020 Da Staff Lascia un commento

Il genitore che decide di lasciare le figlie dai nonni, anziché tenerle con sé, rischia di perdere il loro affido. A stabilire tale principio di diritto è la Corte di Cassazione con la recente sentenza n. 1191 del 2020.

Il caso

Una coppia decideva di separarsi ai sensi dell’art. 151 c.c.. Il Tribunale competente, previa pronuncia della separazione, disponeva il collocamento delle figlie minori presso la madre. Obbligava il padre a versare a titolo di mantenimento delle figlie la somma di € 1000,00 mensili, oltre alla compartecipazione alle spese straordinarie. Disponeva, altresì, il diritto di visita per il padre e preso atto della complessa situazione del nucleo, disponeva l’affido delle due figlie minori al Comune. Il Tribunale, pertanto, limitava la responsabilità dei genitori relativamente alle decisioni più importanti da assumere nell’interesse delle figlie che dovevano essere prese dall’Ente affidatario. Quest’ultimo, inoltre, aveva il compito di avviare interventi a supporto delle bambine e della genitorialità. 

La sentenza veniva appellata da entrambi i coniugi

Ebbene, entrambi i coniugi appellavano la sentenza di separazione. Tuttavia, la Corte adita modificava solamente alcuni punti della decisione di primo grado. Nello specifico, accogliendo le doglianze della donna, modificava esclusivamente gli aspetti economici.

Il padre presentava ricorso in Cassazione

L’uomo ricorreva in Cassazione presentando un articolato ricorso fondato su 31 motivi, tutti rigettati. 

Nel dettaglio, per ciò che attiene l’affidamento delle figlie, l’uomo contestava, tanto le relazioni sociali, tanto le modalità del calendario di incontri con le figlie, quanto la limitazione alla propria responsabilità genitoriale.

Principio affermato dalla Corte di Cassazione

Nella lunga sentenza n. 1191 del 2020 la Corte di Cassazione si soffermava sulla condotta del padre ricorrente. Sebbene questi lamentasse la violazione di legge e in particolare le limitazioni imposte alla propria responsabilità genitoriale, di fatto il predetto non aveva dimostrato di essere un padre presente. Invero la Corte rilevava come il padre avesse l’abitudine di lasciare le figlie dai nonni fino a tarda sera. In particolare i giudici sottolineavano la “scarsa presenza del padre in casa nei periodi in cui avrebbe dovuto tenere con sé le figlie“. Peraltro più volte i servizi sociali avevano relazionato il disagio che ciò causava alle figlie di soli 12 e 4 anni. 

Potrebbe anche interessarti “Collocamento del figlio presso il padre, in quali casi?”, leggi qui. 

 

 

 

 

 

 

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Chat e minori: i genitori devono vigilarne e monitorarne l’utilizzo.

6 Gennaio 2020 Da Staff Lascia un commento

Chat e minori: l’utilizzo delle chat da parte dei minori deve essere oggetto di monitoraggio dei genitori (Trib. Min. Caltanissetta 08.10.2019).

Il caso

Un minore utilizzava un’applicazione di messaggistica per minacciare una coetanea. Quest’ultima, a causa di ciò, era costretta a modificare le proprie abitudini di vita per l’ansia e la preoccupazione sorte per le continue minacce. 

Il caso giungeva all’attenzione del Tribunale per i Minorenni di Caltanissetta

Il Tribunale per i Minorenni, investito della questione, poneva la propria attenzione sui genitori. Nel dettaglio sottolineava le responsabilità dei genitori in merito all’utilizzo della rete internet da parte dei figli. Invero, i giudici nisseni, evidenziavano, in via generale la necessità a che i genitori provvedano ad educare i minori al corretto utilizzo della rete. Cosa che, a tenor degli stessi, può avvenire solo tramite una limitazione quantitativa e qualitativa dell’uso delle chat (e di internet) da parte dei minori.

Pertanto, sebbene l’uso di chat, e in generale di internet, da parte dei minori è sempre più diffuso, allo stesso tempo questi sono esposti a maggiori rischi e pericoli. Infatti, tramite i social i minori esercitano il proprio diritto all’informazione e comunicazione, tutelato a livello nazionale (art. 21 Cost.) ed internazionale (art. 11 Carta dei diritti UE). Ma tale diritto va contemperato con la tutela del minore stesso. Infatti è risaputo che il non corretto utilizzo di tali strumenti può essere gravemente dannoso. Per tale ragione salvaguardare il minore nell’uso della rete telematica è un obiettivo prioritario. Ciò,  indipendentemente dalle capacità e competenze maturate dal minore stesso.

Conclusioni dei giudici nisseni

I giudici investiti della vicenda ritenevano che l’anomalo utilizzo degli strumenti telematici da parte del minore era sintomatico di scarsa vigilanza ed educazione da parte dei genitori.

Di conseguenza il Tribunale avviava un’attività di monitoraggio e supporto del minore e della madre. Ciò al fine di verificare le effettive e reali capacità educative e di vigilanza da parte della donna.

Potrebbe anche interessarti “La nuova compagna di papà può pubblicare le nostre foto sui social?”, leggi qui.

 

 

 

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Educazione religiosa, può essere imposta?

21 Novembre 2019 Da Staff Lascia un commento

Se l’educazione religiosa da impartire a un figlio causa un conflitto tra i genitori, il giudice dovrà accertare eventuali pregiudizi ai danni del figlio; tale accertamento dovrà avvenire previa osservazione e ascolto del minore stesso (Cass. Sez. I n. 21916/2019).

Contrasto sull’educazione religiosa

Oggigiorno assistiamo sempre più spesso a matrimoni o convivenze tra persone con culture profondamente diverse; queste diversità, inevitabilmente, si riversano sull’educazione da impartire ai figli. certo la religione è uno dei più importanti capisaldi della nostra cultura, ed invero, non di rado, capita che i genitori non concordino in merito all’educazione religiosa da impartire. A tal proposito ci si chiede se un genitore possa in qualche modo imporre la propria religione al figlio. La questione, per nulla scontata, ha creato molti contrasti anche in giurisprudenza.

Proprio in caso di disaccordo tra i genitori, sarà il giudice a dirimere il conflitto, questi dovrà farsi guidare dal “supremo interesse del minore” che si ritiene prevalente sulla libertà religiosa dell’adulto e sul potere educativo del genitore.

Soluzioni giurisprudenziali

A tal proposito il Tribunale di Como, pronunciando separazione personale dei coniugi, statuiva anche sull’educazione religiosa del figlio. In quell’occasione il rilevava il totale dissenso del padre cattolico all’educazione religiosa geovista della madre ritenendo “migliore” la scelta educativa paterna all’insegnamento della religione cattolica.

I giudici comaschi, sostenevano che la religione cattolica era da preferirsi alle altre religioni perché avrebbe consentito al minore una migliore integrazione nella società, nella scuola e persino nello sport. Ciascuno di questi “settori”, infatti, sarebbe fortemente influenzato dalla religione cattolica.

La madre proponeva appello avverso la sentenza.

Questa riteneva la sentenza contraria al principio della bigenitorialità , sostenendo che ogni genitore deve essere libero di trasmettere i propri valori ai figli, primi tra tutti quelli religiosi. Soltanto se il figlio viene messo a contatto con diverse realtà sarà in grado di effettuare una scelta religiosa consapevole.

La Corte di Appello rigettava il ricorso, facendo in parte proprie le conclusioni del padre e ribadendo il preminente interesse del minore ad un libero approccio con le religioni dei genitori a condizione che il conflitto genitoriale non gli arrechi alcun danno. 

Recentemente la Corte di Cassazione, con sentenza n. 21916 del settembre 2019, ha riconosciuto il diritto del minore a ricevere l’educazione religiosa da entrambi i genitori. Il minore deve essere libero di scegliere la propria religione così come consentito dall‘art. 19 della nostra Costituzione.

Quindi il genitore può imporre l’educazione religiosa al figlio?

Abbiamo quindi detto che il dato di partenza deve essere sempre il superiore interesse del minore. Quindi se il disaccordo dei genitori può arrecare dei danni a quest’ultimo,  sarà il giudice a decidere ascoltando il minore personalmente

Ciò significa che il tribunale potrebbe anche decidere di impedire ai genitori qualsiasi imput religioso, così come avvenuto ad Agrigento nel 2017.  Allo stesso modo, il giudice potrebbe decidere che sia un solo genitore ad impartire l’educazione religiosa al figlio, indipendentemente dalle religioni in questione.

L’unico interesse del giudice sarà proprio il minore, a che questo cresca sereno e soprattutto libero. 

Potrebbe anche interessarti “Affidamento figlio: il genitore lo può riottenere se dimostra di avere abbandonato la vita trasgressiva”, leggi qui.

 

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Affidamento figlio: il genitore lo può riottenere se dimostra di avere abbandonato la vita trasgressiva.

10 Ottobre 2019 Da Staff Lascia un commento

Il genitore può riottenere l’affidamento del figlio se dimostra di avere messo da parte lo stile di vita trasgressivo, fatto di alcool e droga. Infatti il reale cambiamento gli consentono di potere riottenere l’affidamento. A stabilire il predetto principio è stata la Suprema Corte, I sez. civile, con la sentenza n. 24790 depositata il 3 ottobre scorso.

Il caso

Un padre aveva perso l’affidamento del figlio minore a causa delle condotte contrarie ai dovevi di un genitore. In particolare lo stile di vita trasgressivo condotto, causato dall’abuso di alcool e droga, lo rendevano inidoneo al proprio ruolo. Tale circostanza induceva il Tribunale, a tutela del minore, a disporne temporaneamente l’affidamento ad altra famiglia. Veniva dichiarato, altresì, lo stato di adottabilità del ragazzino.

Il padre, presa coscienza e consapevolezza di quanto stava accadendo, impugnava innanzi la Corte di Appello competente il provvedimento che disponeva lo stato di adottabilità del figlio.

La Corte di Appello riconoscendo concretezza agli elementi forniti dal padre revocava lo stato di adottabilità del minore. L’Ecc.ma Corte ammetteva che i progressi posti in essere dall’uomo erano tali da consentire al figlio di fare rientro a casa.

In particolare il ricorrente dimostrava di avere adeguata capacità genitoriale e di essere in grado di supportare il figlio. Tutto ciò grazie al superamento delle problematicità legate all’abuso di alcool e stupefacenti.

La Corte di Appello andava oltre.  Affermava  che la nuova situazione non poteva essere messa in discussione dalla stabilizzazione del minore presso la famiglia affidataria. Neppure i possibili pregiudizi con il rientro nella famiglia di origine potevano avere prevalenza.

Il tutore ricorreva in Cassazione

Il Tutore ricorreva in Cassazione lamentando che il provvedimento adottato dalla Corte fosse in contrasto con l’interesse del minore. In particolare il predetto sosteneva il diritto del fanciullo alla continuità affettiva con la famiglia affidataria.

La Suprema Corte di Cassazione confermava la valutazione effettuata dal Giudice di secondo grado. Per tale ragione, pertanto, il ricorso al Giudice delle leggi si rivelava inutile. Gli Ermellini ribadivano il diritto del padre a riavere con sé il figlio. Infatti l’uomo aveva dato prova di potersene occupare sotto il profilo economico ed affettivo.  L’elemento più importante della vicenda è stata la capacità del padre di superare le problematiche legate alle dipendenze. Grande rilievo ha avuto anche l’atteggiamento positivo manifestato dall’uomo dopo il collocamento presso la famiglia affidataria.

I sopra descritti elementi hanno reso fondato il giudizio in merito alla recuperata capacità genitoriale. Ciò ha correttamente comportato la revoca dello stato di adottabilità del figlio e il rientro graduale presso la famiglia di origine.

Può interessarti anche “Il superiore interesse del minore nel procedimento per riconoscimento del figlio: le linee guida della Cassazione in Cass. I sez. Civ. Sent. n. 17762/2017”. Leggi qui.

 

 

 

 

 

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Al mantenimento del figlio pensa la mamma. Il papà è liberato dall’obbligo?

19 Maggio 2019 Da Studio Legale Arcoleo Lascia un commento

Il mantenimento del figlio minore è un obbligo di entrambi i genitori. Nessuno dei due può esimersi, anche se  l’altro genitore ha un buono stipendio e può sostenere le spese da solo. (Cass. Pen. Sez IV, 23 marzo 2018 – 4 maggio 2018 n. 19508).

Mamma e papà si separano. Il Tribunale, nell’agosto 2004, stabilisce che il figlio minore della coppia resti ad abitare con la mamma, onerando il papà a corrispondere 300 euro mese per il suo mantenimento.

Per ben dieci anni, però il papà non paga, e la mamma, esausta, si rivolge al Tribunale Penale. Sia in primo che in secondo grado l’uomo viene condannato per violazione degli obblighi di assistenza familiare ex art. 570 c.p., ad un mese di reclusione (pena condizionalmente sospesa) e 100 euro di multa.

Lui però non ci sta! E ricorre in Cassazione sostenendo di non aver commesso il reato poiché il bambino non è in “stato di bisogno” . Tanto più che la mamma ha un buon lavoro, retribuito in maniera dignitosa. Inoltre la stessa  percepisce un anticipo dal Comune per l’assegno non pagato dal padre e  un assegno bimestrale di assistenza della Regione. Considerando tutto questo l’uomo era convinto di non essere tenuto a versare il mantenimento. Per giustificarsi adduce anche il motivo che per quasi due anni è stato disoccupato…

La Suprema Corte è categorica, e ricorda che la minore età è condizione sufficiente a determinare lo “stato di bisogno”. E che l’obbligo al mantenimento ricade sempre su entrambi i genitori.  Quindi lo “stato di bisogno” si verifica anche  se uno solo dei genitori non corrisponda il mantenimento, e l’altro vi provveda in via sussidiaria.

La Cassazione precisa anche che, secondo la giurisprudenza, lo stato di bisogno e l’obbligo al mantenimento dei figli, non vengono meno neppure quando i minori godano di benefici a carico della pubblica assistenza.

Il primario dovere di mantenimento del figlio minore da parte del genitore, è un’esigenza morale universalmente avvertita sul piano sociale. E l’eventuale convincimento del genitore inadempiente di non essere tenuto all’assolvimento di questo obbligo  in quanto se n’è fatto carico l’altro genitore, non integra nemmeno un’ipotesi di ignoranza scusabile.

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