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reato

Atti persecutori anche tramite l’amica

26 Agosto 2022 Da Staff Lascia un commento

Atti persecutori anche tramite l’amica: la Corte di Cassazione è tornata a parlare di stalking.

Ed in particolare gli ermellini affermano che ai fini della integrazione del reato di stalking anche le condotte moleste che il persecutore mette in atto tramite persone vicine affettivamente alla vittima principale sono da ritenersi penalmente rilevanti perché il soggetto agente è consapevole che delle stesse ne verrà informata.

Questa l’importante precisazione della Cassazione contenuta nella sentenza n. 26456/2022 del 08.07.2022.

Il caso

In accoglimento del ricorso della parte civile, la Cassazione ha ritenuto erronea la decisione del giudice di secondo grado: “laddove espunge dal novero delle condotte in rilievo quelle “indirette tenute nei contatti avuti con la (…) chiamando in causa anche la (….):” , assegnando così rilevanza, ai fini della integrazione della condotta tipica prevista dall’art. 612-bis cod. pen., anche alle molestie c.d. “indirette”.

Nel caso di specie, l’imputato aveva tenuto nei confronti della parte civile, diverse e reiterate condotte di atti persecutori: contatti su Facebook, anche indirettamente, tramite una sua amica, a cui inviava messaggi di testo e vocali in cui dichiarava di non essere lui la causa dei tentativi di suicidio della vittima.

Condotte che provocavano alla stessa un continuo stato d’ansia, con attacchi di panico.

La Corte di Appello confermava la condanna dell’imputato per il reato di atti persecutori, ma in riforma della decisione di condanna di primo grado, lo assolveva dal reato di atti persecutori commessi nei confronti di un altro soggetto, revocando le statuizione civili.

L’assoluzione si basava sulla assenza del requisito della reiterazione della condotta.

La sentenza degli Ermellini

La parte civile, ricorrendo in Cassazione, lamentava l’erronea applicazione della norma che contempla il reato di atti persecutori, contestando il mancato riconoscimento del requisito della reiterazione, perché dalla motivazione della sentenza in realtà tale requisito emergeva: messaggi, telefonate, il palesare il proprio ritorno sulla pagina Facebook della persona offesa con like e richieste di amicizia, contatti indiretti anche tramite l’amica intima della persona offesa e il progredire delle molestie e minacce in episodi ulteriori risalenti al 2018 e oggetto di denunce: condotte che contrastavano con la decisione di assoluzione ai danni della ricorrente.

Rilevanti dunque anche le comunicazioni di carattere molesto o minatorio dirette a destinatari diversi dalla persona offesa ma a quest’ultima legati da un rapporto qualificato di vicinanza, ove l’agente agisca nella ragionevole convinzione che la vittima ne venga informata e nella consapevolezza della idoneità del proprio comportamento abituale a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice.

La condotta del soggetto agente deve essere pertanto valutata nel suo complesso, assumendo rilievo anche comportamenti solo indirettamente rivolti contro la persona offesa. La Cassazione ha, quindi, ritenuto legittima la valutazione non solo delle minacce o molestie rivolte alla persona offesa dall’imputato ma anche le minacce e le denunce calunniose proposte nei confronti del marito e del padre della persona offesa, in quanto si inserivano nell’unitaria condotta persecutoria (Sent. Sez. 5, n. 323 del 14/10/2021).

Potrebbe anche interessarti: “Problemi con i condomini? Potreste essere vittime di stalking condominiale”. Leggi qui.

Archiviato in:I nostri articoli, Legge e Giurisprudenza Contrassegnato con: pedinamenti, reato, Stalking

Condannato il padre che non prova la impossibilità ad adempiere

8 Ottobre 2021 Da Staff Lascia un commento

Condannato il padre che non prova la sua impossibilità economica a provvedere al versamento del mantenimento per il figlio.

La Cassazione, con la recente sentenza n. 33932 del 2021, afferma la responsabilità penale del padre che dopo la separazione non provvede al mantenimento del figlio. Per gli Ermellini, ai fini della esclusione della condanna, non rileva la situazione di difficoltà economica, necessitando una prova più rigorosa: ossia l’impossidenza o una condizione di precarietà.

Il caso

Un uomo veniva condannato in sede penale alla pena di mesi 4 di reclusione e alla multa di € 400,00 per il reato di cui all’art 570 comma 2, n. 2 c.p. Tale norma punisce chi viola gli obblighi di assistenza familiare. Nel caso di specie, in sede dibattimentale, emergeva che l’imputato non aveva versato l’assegno di mantenimento  per del figlio disposto in sede di separazione. La condanna veniva confermata anche in appello.

L’uomo ricorreva in Cassazione

L’imputato, ritenendo errata la decisione, ricorreva in Cassazione sollevando tre motivi di impugnazione:

  • con il primo rilevava l’insussistenza dell’elemento oggettivo e soggettivo del reato. In particolare lamentava che i giudici di merito non avevano effettivamente appurato se al minore fossero realmente mancati i mezzi di sussistenza.

  • Con il secondo lamentava il mancato accertamento delle sue condizioni economiche.

  • Con il terzo invece rilevava che le sue condizioni economiche rendevano di fatto impossibile adempiere e pertanto aveva errato a subordinare la sospensione condizionale della pena al pagamento del risarcimento del danno in favore della parte civile.

La decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte di Cassazione adita rigettava però il ricorso dell’imputato per genericità e infondatezza.

Per gli Ermellini, infatti, contrariamente a quanto sostenuto dall’imputato, il reato contestato era integrato in tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi. Dalle dichiarazioni testimoniali emergeva che durante il coniugio l’imputato provvedeva  alla famigli sospendendo i versamenti solo successivamente alla separazione.

Peraltro, gli Ermellini  sottolineavano che nella minore età del minore è insito lo stato di bisogno, non essendo capace un bambino di provvedere  provvedere autonomamente alle proprie necessità. Infine, l’imputato non aveva dimostrato la sua impossibilità di pagare il mantenimento del figlio. Le dichiarazioni erano rimaste mere affermazioni labiali prive di riscontri probatori.

Per le superiori ragioni pertanto la Suprema Corte rigettava il ricorso e la sentenza diventava definitiva. Potrebbe anche interessarti: “Mantenimento per il figlio che lascia il lavoro per studiare”. Leggi qui. 

 

 





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Omesso mantenimento: commette il reato chi non corrisponde il contributo anche se i figli non versano in stato di bisogno

2 Maggio 2021 Da Staff Lascia un commento

L’omesso mantenimento da parte del padre obbligato è reato anche se i figli non versano in stato di bisogno perché a provvedere al loro sostentamento è la madre. Ribadisce il superiore principio di diritto la Corte di Cassazione con la sentenza n. 16783 del 2021.

Art. 570 c.p.

L’art. 570 c.p. afferma che “chiunque, abbandonando il domicilio domestico, o comunque serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla responsabilità genitoriale, alla tutela legale o alla qualità di coniuge, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da centotre euro a milletrentadue euro. Le dette pene si applicano congiuntamente a chi: 1) malversa o dilapida i beni del figlio minore o del coniuge; 2) fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore , ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge, il quale non sia legalmente separato per sua colpa“.

Prova dell’impossibilità a contribuire al mantenimento della prole

Per essere assolti dal reato di “violazione degli obblighi di assistenza familiare” ex art. 570 c.p. chi è tenuto a corrispondere il contributo deve provare di trovarsi nell’impossibilità ad adempiere. La circostanza che a provvedere ai figli sia l’ex coniuge non incide in alcun modo sull’obbligo di mantenimento.

Il caso

Un uomo vedeva confermata in Appello la condanna per il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare. Il predetto aveva omesso di versare alla ex compagna l’assegno di mantenimento ordinario e la quota delle spese straordinarie per i figli. Tuttavia, la corte di Appello adita, previo riconoscimento delle attenuanti generiche non concesse in primo grado, ne riduceva la pena. 

L’uomo ricorreva in Cassazione

L’uomo, ritenendo non legittima la decisione dei giudici di merito, ricorreva in Cassazione sollevando tre motivi:

1)con il primo contestava le questioni procedurali già sollevate in appello ma respinte;

2)con il secondo lamentava la ricostruzione dei fatti che hanno portato alla condanna contestando, in particolare, la sussistenza dello stato di bisogno dei figli e il mancato accertamento della sua capacità economica a fare fronte all’impegno;

3)con il terzo infine riteneva eccessiva la pena irrogata nei suoi confronti.

Chi è obbligato al mantenimento deve provare di trovarsi in difficoltà economica

Gli Ermellini non accolgono nessuno dei motivi sollevati dal ricorrente e rigettano il ricorso perché inammissibile.

Ed in particolare: Il primo motivo viene ritenuto manifestamente infondato perché si limita a riproporre gli stessi motivi d’impugnazione già sollevati in appello e sui quali la Corte di Appello si è già pronunciata. Il secondo è ritenuto inammissibile perché si limita a proporre una diversa valutazione delle prove. L’imputato interpretala norma in modo errato. Ed invero non deve essere provata  la disponibilità economica a provvedere, quando sussiste un obbligo nei confronti dei propri congiunti, ma, al contrario, per non incorrere nel reato è onere dell’obbligato dimostrare la propria impossibilità ad adempiere. Nel caso di specie nulla l’imputato ha provato in merito. Peraltro alcuna incidenza ha, circa la configurazione o meno del reato, la capacità economica di chi ha diritto al contributo.

Infine anche il terzo motivo viene rigettato perché non competono alla Cassazione le valutazioni di merito per la quantificazione della la pena.

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Problemi con i condomini? Potreste essere vittime di stalking condominiale

14 Aprile 2021 Da Staff Lascia un commento

Condomini gioia e dolori, questo è risaputo, e alcune condotte  potrebbero addirittura configurare il reato di stalking condominiale ex art. 612 bis c.p.

Notorio è che la realtà condominiale rappresenta terreno fertile per la nascita di contrasti e dissidi che possono dirompere nell’area del penalmente rilevante. Ciò avviene quando vengono lesi o messi in pericolo beni giuridici tutelati da specifiche fattispecie incriminatrici.
Le statistiche rilevano negli ultimi anni che una buona percentuale di ipotesi di atti persecutori si realizza in ambito condominiale. Gli animi esacerbati da rancori pregressi o le innumerevoli incomprensioni e intolleranze nei rapporti di vicinato si traducono spesso in condotte penalmente rilevanti.

Articolo 612 bis c.p.

Il reato di atti persecutori, disciplinato all’art. 612 bis c.p., è comunemente chiamato stalking, dall’inglese to stalk, ovvero “fare la posta alla preda”.

Da diversi anni si registra l’estensione del campo di applicazione del reato di atti persecutori anche in contesti diversi da quelli inerenti la sfera affettiva, come appunto il contesto condominiale.
Lo stalking condominiale, inteso come fattispecie in cui anche in via indiretta si subisce un turbamento della propria tranquillità domestica, tanto da alterare il proprio modus vivendi, è ormai consacrata anche in giurisprudenza (cfr. sent. n. 26878/2016 della Suprema Corte di Cassazione). Tale pronuncia ribadisce che il reato di stalking si configura anche quando un soggetto tiene nei confronti dei propri condomini un comportamento esasperante tale da cagionare il perdurante stato di ansia della vittima (che nel caso di specie aveva iniziato a prendere dei tranquillanti) e costringendola a modificare le proprie abitudini di vita.

Pronunce della Suprema Corte

Diverse volte la Corte di Cassazione ha affrontato il tema dello stalking. Con una recente pronuncia gli ermellini hanno affrontato un’ipotesi di stalking condominiale configurato a seguito di video riprese, ritraenti i vicini di casa. Il condomino minacciato, infatti, assumeva un investigatore che aveva puntualmente ripreso le condotte dei persecutori.
Legittima viene considerata l’acquisizione dei dvd prodotti, poiché gli episodi si sono realizzati in luoghi aperti al pubblico. Peraltro dal sonoro e dalle immagini registrate emergeva la verità dei fatti così come narrata dalla persona offesa.

I casi

La questione riguardava due coniugi accusati di aver commesso atti persecutori ai danni di un loro vicino.

La persona offesa, continuamente ingiuriata e minacciata, temeva per la propria incolumità, anche a seguito di alcuni episodi dove i vicini avevano tentato di investirlo con l’auto. Tali condotte, protrattesi per quasi due anni, hanno ingenerato nella vittima un grave stato d’ansia, paura e fondato timore per la propria persona.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 17346 del 2020, nel caso in esame, ha rigettato il ricorso sollevato dai due coniugi, imputati per il reato di atti persecutori ai danni di un vicino di casa.

Altra interessante pronuncia è quella della sez. VII pen. con sent. n. 25153 del 09.09.2020, con la quale è stata riconosciuta la ipotesi delittuosa di stalking nel caso di disturbo della quiete pubblica posta in essere da un
condomino che produceva rumori capaci di disturbare un gruppo indeterminato di persone, costringendo i vicini a cambiare abitudini di vita.

Forme di tutela

Se si ritiene di esserne vittima di stalking condominiale, è consigliabile pertanto agire per la tutela dei propri interessi e dunque presentare apposita richiesta di ammonimento al Questore.  a seguito della quale il Questore, preso atto della richiesta, qualora la ritenga fondata, emette un decreto di ammonimento orale nei confronti dello stalker; nelle ipotesi più gravi è opportuno presentare una querela. Questa può essere sporta entro sei mesi dai fatti incriminati. Il Tribunale, accertata la responsabilità penale dell’imputato, può emettere nei suoi confronti un’ordinanza restrittiva che impone allo stalker di lasciare la propria abitazione e di non avvicinarsi oltre i 500 metri al condominio per un determinato periodo di tempo.

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Diffamazione: non integra il reato la condotta di chi offende qualcuno in una chat di gruppo

21 Aprile 2020 Da Staff Lascia un commento

Non commette il reato di diffamazione colui che offende qualcuno in una chat di gruppo, bensì di ingiuria aggravata se l’offeso è presente (Cass. pen. sentenza n. 10905 del 31 marzo 2020).

Il fatto

Un uomo veniva accusato di aver diffamato un conoscente durante una video chat vocale, a carattere temporaneo, sulla piattaforma Google Hangouts. Nel caso di specie rilevava  che il destinatario dei messaggi era solamente la persona offesa. Tuttavia la caratteristica della chat era che anche altri soggetti potevano assistere all’episodio.

La persona offesa, pertanto, querelava l’uomo per il reato di diffamazione.

Il Giudice di prime cure accogliendo la tesi accusatoria condannava l’imputato per il reato ascrittogli.

L’umo ricorreva in appello ritenendo, che nel caso in esame, non sussistessero gli elementi costitutivi del reato di diffamazione di cui all’art. 595 c.p.

Tuttavia, anche la Corte di Appello di Milano confermava la sentenza di I grado che aveva condannato il  ragazzo per diffamazione.

L’uomo ricorreva in Cassazione

La Suprema Corte, accoglieva le doglianze del ricorrente e cassava, senza rinvio, la sentenza.

Nell’iter motivazionale gli Ermellini,  preliminarmente compivano, un’attenta analisi delle differenze tra il reato di ingiuria e quello di diffamazione constatando, in primis,  che entrambi i reati prevedono un’offesa.

Il reato di ingiuria, disciplinato dall’art. 594 c.p., oggi depenalizzato, puniva l’offesa rivolta direttamente ad un altro soggetto, ad esempio durante una conversazione. L’ingiuria si considerava aggravata se a tali offese assistevano altre persone oltre la persona offesa.

Requisiti del reato di diffamazione

Il reato di diffamazione, invece, previsto dall’art. 595 c.p. stabilisce che il bene giuridico tutelato è la reputazione, intesa come l’opinione sociale dell’onore di una persona, la stima diffusa nell’ambiente sociale, insomma, ciò che gli altri pensano di una persona. L’offesa pertanto avviene indirettamente. Nello specifico la condotta si integra quando l’agente si rivolge ad altri parlando male di qualcuno con più di due persone oppure lo fa in forma scritta, per esempio, con un articolo di giornale.

Riassumendo, i presupposti del reato in esame sono quindi i seguenti: l’assenza dell’offeso; l’offesa alla reputazione; la presenza di almeno due persone in grado di percepire le parole diffamatorie (esclusi il soggetto agente e la persona offesa).

Nel caso di specie la Suprema Corte, accogliendo il ricorso e cassando senza rinvio,  sottolineava  che le espressioni offensive erano state pronunciate dall’ imputato mediante comunicazione telematica diretta alla persona offesa, anche alla presenza di altre persone ‘invitate’ nella chat vocale. Pertanto, l’offeso non era rimasto estraneo alla comunicazione offensiva. Il reato contestato doveva quindi essere qualificato come ingiuria aggravata dalla presenza di più persone, ai sensi dell’art. 594 del codice penale; reato quest’ultimo, depenalizzato dal D.Lgs. n. 7 del 2016.

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Stalking: integra il reato perseguitare la propria ex con la scusa di vedere il figlio

10 Aprile 2020 Da Staff Lascia un commento

Integra il reato di stalking o atti persecutori, disciplinato dall’art. 612 bis c.p., la condotta di colui il quale, strumentalizzando il proprio diritto di fare il padre, perseguiti la propria ex.

E’ quanto stabilito dalla V sezione penale della Suprema Corte di Cassazione con la recentissima sentenza in commento n. 10904/2020.

Cosa è lo “stalking”?

Lo stalking consiste nella messa in atto di condotte persecutorie reiterate nel tempo idonee ad ingenerare un grave stato di ansia o paura, per la propria o altrui incolumità, nella persona che le subisce.

Il reato di atti persecutori, o stalking, è stato introdotto nell’ordinamento italiano dal D.L. n. 11/2009, convertito dalla L. n. 38/2009. E’ stato dunque inserito nel codice penale, all’art. 612 bis,  tra i delitti contro la persona.

L’introduzione del reato di stalking nell’ordinamento penale rappresenta la risposta normativa che il legislatore italiano ha inteso dare per fronteggiare la repentina crescita del preoccupante fenomeno in questione nella società odierna.

Difatti, l’intento principale del  legislatore nazionale è stato quello di fornire una risposta sanzionatoria a tutti quei comportamenti che venivano inquadrati e disciplinati da altre e meno gravi fattispecie di delitti, talvolta inidonee a garantire adeguata tutela alle vittime.

Il fatto

Una donna sporgeva denuncia nei confronti dell’ex convivente, uomo con il quale aveva avuto un figlio. L’uomo era accusato di aver messo in atto condotte riconducibili alla fattispecie delittuosa di cui all’art. 612 bis c.p. In particolare, la donna sosteneva di essere vittima di continue minacce, pedinamenti, innumerevoli chiamate telefoniche da parte dell’ex compagno.

Il giudizio di primo grado terminava con la condanna dell’imputato per il reato di atti persecutori, ai sensi dell’art. 612 bis c.p., ai danni della ex convivente.

La sentenza resa in primo grado veniva confermata dal giudice di appello.

Il ricorso in Cassazione

L’uomo ricorreva dinanzi i giudici di legittimità sollevando ben otto motivi di ricorso.

In particolare, con il terzo motivo, il ricorrente si soffermava sull’impossibilità di configurare il reato contestato a causa dell’inattendibilità delle dichiarazioni rese in giudizio dalla ex  convivente e dai testimoni.  

A parere del ricorrente, come già illustrato in fase di appello, «l’equivoco di fondo sarebbe consistito nel ritenere vessatorie quelle condotte messe in atto al solo fine di esercitare il proprio diritto, garantito peraltro dalla normativa comunitaria, di avere rapporti affettivi e di frequentazione con il figlio minore».

In breve, le condotte vessatorie a lui attribuite avrebbero dovuto considerarsi come l’estrinsecazione del suo diritto di mantenere un rapporto significativo con il figlio. Pertanto, i giudici di merito avrebbero dovuto riconoscere la scriminante dell’esercizio di un diritto ricollegabile al suo ruolo di genitore.

L’iter decisionale degli Ermellini

Innanzitutto la Cassazione ribadisce che, in sede di legittimità, non  si può procedere a una “rilettura” degli elementi di fatto posti alla base di una decisione. Invero, la valutazione di detti elementi spetta al solo giudice di merito.

Ne discende che il ricorso è inammissibile nella parte in cui pretende una ri-valutazione degli elementi probatori al fine di ottenere una pronuncia contraria a quella emessa.

Altresì, gli Ermellini precisano che le dichiarazioni rese dalla vittima nel corso del giudizio costituiscono una base decisionale solida ed imprescindibile.  

Inoltre, la Corte ritiene prive di ogni rilievo le argomentazioni relative al diritto di mantenere il rapporto con il figlio. Le condotte vessatorie poste in essere, contestate e provate, sono dirette esclusivamente alla madre del bambino. Questi comportamenti non hanno nessun collegamento con la condizione di genitore dell’imputato. I pedinamenti, le minacce e le offese rivolte alla persona offesa non hanno la finalità d’incontrare o avere informazioni sul bambino.

Dal racconto della vittima, ritenuta attendibile dai giudici di merito, emerge che l’imputato si sia reso responsabile di vere e propri incursioni in casa, danni alla vettura, innumerevoli chiamate telefoniche a tutte le ore del giorno, minacce di morte, atti vandalici e pedinamenti.

Nessuno di questi comportamenti sarebbe da ricondurre all’espletamento del ruolo genitoriale, anzi!

Alla luce delle superiori argomentazioni, la Suprema Corte rigettava il ricorso proposto dall’uomo. Confermava, così, le conclusioni cui erano pervenuti i giudici di merito.

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Un abbraccio forzato può configurare il reato di violenza sessuale

11 Gennaio 2020 Da Staff Lascia un commento

Un abbraccio forzato, senza il consenso della persona che lo riceve, può configurare il reato di violenza sessuale.A stabilirlo è la Corte di Cassazione con la sentenza n. 378 del 09.01.2020.

Il caso

Un uomo veniva condannato, dai giudici di primo grado, per il reato di violenza sessuale di cui all’art. 609 bis c.p. per avere abbracciato, contro la sua volontà, una vicina di casa. In particolare la donna tendeva la mano per salutare il vicino, ma questi, forzosamente abbracciava la donna. Tale contatto, secondo la persona offesa, sarebbe avvenuto  perché l’uomo, un settantenne, voleva aderire con il proprio corpo i seni della vicina.

L’uomo ricorreva in Corte di Appello

La Corte di Appello riteneva logico e corretto il ragionamento motivazionale dei giudici di primo grado. Pertanto confermava la condanna emessa nell’ambito del giudizio abbreviato a cui l’imputato aveva richiesto essere ammesso.

La Corte di Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso

La Corte di Cassazione investita della questione riteneva inammissibile il ricorso proposto dall’imputato. Quest’ultimo, sebbene non contestasse la natura sessuale degli atti, riteneva che gli stessi non configurassero il reato di  violenza sessuale. Ciò in quanto assenti sia la violenza sia il mancato consenso della persona offesa. Ebbene, l’uomo lamentava che  i giudici non avevano considerato la circostanza che la persona offesa sapeva dell’assenza da casa della moglie dell’imputato e pertanto alcun inganno poteva contestarsi. Peraltro, sempre secondo l’imputato, la donna avrebbe dovuto manifestare un esplicito e chiaro dissenso agli approcci dell’imputato.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 378/2020  sottolineava che  il ricorrente ripresentava in sede di legittimità le stesse rimostranze avanzate in sede d’appello. Peraltro, non veniva mai contestata la natura sessuale degli atti. Men che mai veniva messa in discussione l’attendibilità della vittima.

Elementi del reato di violenza sessuale

Nella propria motivazione la Corte ribadiva che per costante giurisprudenza il reato di violenza sessuale si configura anche in presenza di atti intimidatori capaci di provocare la coazione della vittima a subire atti sessuali, quindi anche in caso di abbraccio forzato.

Nel caso di specie l’imputato commetteva atti di libidine repentini e subdoli, senza prima accertarsi del consenso della vittima o prevenendone in ogni caso il dissenso. Di conseguenza, per la configurazione del reato de quo, la violenza non deve necessariamente impedire alla vittima di opporre resistenza.  Secondo gli ermellini è sufficiente che il soggetto agente compia in modo insidiosamente rapido i suoi atti “tanto da superare la volontà contraria del soggetto passivo”.

Tornando al caso di specie, dal racconto della vittima emergeva che la persona offesa tendeva la mano per salutare l’imputato, il quale la afferrava improvvisamente per un braccio per attirala in un abbraccio, che metteva in contatto i due corpi, compreso il seno della donna e i genitali dell’uomo.

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Offendere sui Social Network è reato: una nuova diffamazione

31 Ottobre 2019 Da Staff Lascia un commento

Offendere su facebook è reato. In particolare le offese integrerebbero il reato di diffamazione di cui all’art. 595 comma 3 c.p.

Sviluppi giurisprudenziali

Offendere su  facebook configura per la giurisprudenza il reato di cui l’articolo 595 c.p. in caso di  post o commento dai contenuti diffamatori, è questo l’orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione.

Per parlare di diffamazione, il post o il commento non necessariamente deve indicare un nome o una persona specifica. È sufficiente che siano scritti elementi che facilmente ricolleghino le offese a un soggetto determinato.

La condotta rientrerebbe tra quelle indicate dal comma 3 dell’art. 595 c.p. 

Fate attenzione! non è necessario che vi sia l’intento di offendere, essendo sufficiente avere volontariamente scritto il post o il commento incriminato, senza tenere conto delle possibili conseguenze.

Ciò che più preoccupa di questo “nuovo reato” è la possibilità di “ricondivisione”, spesso incontrollabile, di un messaggio offensivo. Tutto questo giustifica le condanne previste.

Cosa si intende per diffamazione?

La diffamazione trova “il suo fondamento nella potenzialità, nella idoneità e nella capacità del mezzo utilizzato per la consumazione del reato a coinvolgere e raggiungere una pluralità di persone, ancorché non individuate nello specifico ed apprezzabili soltanto in via potenziale, con ciò cagionando un maggiore e più diffuso danno alla persona offesa.” (Cass. 24431/2015)

Tuttavia non sempre la giurisprudenza è unanime.  Infatti nella sentenza n. 1254/2019 la Cassazione ritiene che Facebook  è “potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato di persone”. Tuttavia non  può parlarsi di reato posto “in essere col mezzo della stampa” perché i social network non sarebbero destinati “ad un’attività di informazione professionale diretta al pubblico”.

Quando il reato non si configura e trattamento sanzionatorio

Esistono delle scriminanti, ossia ipotesi nelle quali non si è puniti. Infatti se si risponde ad una provocazione o se si esercita il proprio diritto di critica allora potrebbe non trattarsi di diffamazione.

Attenzione però, la pena prevista varia da 6 mesi a 3 anni di reclusione, e la multa non è mai inferiore a 516 euro. Inoltre è sempre possibile agire in sede civile per ottenere risarcimento.

Come tutelarsi?

Si tratta di un reato procedibile a querela di parte che va sporta presso i carabinieri o la polizia postale entro 3 mesi da quando si viene a conoscenza del commento o del post dal contenuto offensivo.

Potrebbe anche interessarti “Revenge porn, finalmente è reato”. Leggi qui.

 

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ACCETTA E SALVA
Diritto del lavoro

Lo Studio Legale Arcoleo assiste i propri clienti nei vari ambiti del diritto del lavoro, del diritto sindacale e della previdenza sociale, fornendo consulenza sia in ambito stragiudiziale che giudiziale e con riferimento all’istaurazione, allo svolgimento ed alla cessazione del rapporto di lavoro.

A tal fine, lo Studio si avvale di molteplici apporti specialistici (consulenti del lavoro, commercialisti) anche nelle questioni che investono discipline complementari, per garantire alla clientela un’assistenza ancora più completa grazie ad un miglior coordinamento tra le diverse professionalità.

Diritto penale di famiglia

L’Avv. Antonella Arcoleo coadiuvato  da altri professionisti come avvocati psicologi e mediatori è da sempre impegnato in prima linea per difendere e tutelare i diritti fondamentali della persona in caso di abusi o violenze e offre consulenza e assistenza legale.

Assistenza alle aziende

Lo Studio Legale Arcoleo vanta un’importante esperienza nell’assistenza alle imprese.

Alla base del successo di ogni azienda vi è la particolare attenzione per gli aspetti legali strettamente correlati al business che se correttamente e tempestivamente curati garantiscono alle imprese una sensibile riduzione del contenzioso.

Lo Studio Legale Arcoleo garantisce ai propri clienti attività di consulenza costante e continuativa anche a mezzo telefono e tramite collegamento da remoto.