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atti persecutori

Problemi con i condomini? Potreste essere vittime di stalking condominiale

14 Aprile 2021 Da Staff Lascia un commento

Condomini gioia e dolori, questo è risaputo, e alcune condotte  potrebbero addirittura configurare il reato di stalking condominiale ex art. 612 bis c.p.

Notorio è che la realtà condominiale rappresenta terreno fertile per la nascita di contrasti e dissidi che possono dirompere nell’area del penalmente rilevante. Ciò avviene quando vengono lesi o messi in pericolo beni giuridici tutelati da specifiche fattispecie incriminatrici.
Le statistiche rilevano negli ultimi anni che una buona percentuale di ipotesi di atti persecutori si realizza in ambito condominiale. Gli animi esacerbati da rancori pregressi o le innumerevoli incomprensioni e intolleranze nei rapporti di vicinato si traducono spesso in condotte penalmente rilevanti.

Articolo 612 bis c.p.

Il reato di atti persecutori, disciplinato all’art. 612 bis c.p., è comunemente chiamato stalking, dall’inglese to stalk, ovvero “fare la posta alla preda”.

Da diversi anni si registra l’estensione del campo di applicazione del reato di atti persecutori anche in contesti diversi da quelli inerenti la sfera affettiva, come appunto il contesto condominiale.
Lo stalking condominiale, inteso come fattispecie in cui anche in via indiretta si subisce un turbamento della propria tranquillità domestica, tanto da alterare il proprio modus vivendi, è ormai consacrata anche in giurisprudenza (cfr. sent. n. 26878/2016 della Suprema Corte di Cassazione). Tale pronuncia ribadisce che il reato di stalking si configura anche quando un soggetto tiene nei confronti dei propri condomini un comportamento esasperante tale da cagionare il perdurante stato di ansia della vittima (che nel caso di specie aveva iniziato a prendere dei tranquillanti) e costringendola a modificare le proprie abitudini di vita.

Pronunce della Suprema Corte

Diverse volte la Corte di Cassazione ha affrontato il tema dello stalking. Con una recente pronuncia gli ermellini hanno affrontato un’ipotesi di stalking condominiale configurato a seguito di video riprese, ritraenti i vicini di casa. Il condomino minacciato, infatti, assumeva un investigatore che aveva puntualmente ripreso le condotte dei persecutori.
Legittima viene considerata l’acquisizione dei dvd prodotti, poiché gli episodi si sono realizzati in luoghi aperti al pubblico. Peraltro dal sonoro e dalle immagini registrate emergeva la verità dei fatti così come narrata dalla persona offesa.

I casi

La questione riguardava due coniugi accusati di aver commesso atti persecutori ai danni di un loro vicino.

La persona offesa, continuamente ingiuriata e minacciata, temeva per la propria incolumità, anche a seguito di alcuni episodi dove i vicini avevano tentato di investirlo con l’auto. Tali condotte, protrattesi per quasi due anni, hanno ingenerato nella vittima un grave stato d’ansia, paura e fondato timore per la propria persona.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 17346 del 2020, nel caso in esame, ha rigettato il ricorso sollevato dai due coniugi, imputati per il reato di atti persecutori ai danni di un vicino di casa.

Altra interessante pronuncia è quella della sez. VII pen. con sent. n. 25153 del 09.09.2020, con la quale è stata riconosciuta la ipotesi delittuosa di stalking nel caso di disturbo della quiete pubblica posta in essere da un
condomino che produceva rumori capaci di disturbare un gruppo indeterminato di persone, costringendo i vicini a cambiare abitudini di vita.

Forme di tutela

Se si ritiene di esserne vittima di stalking condominiale, è consigliabile pertanto agire per la tutela dei propri interessi e dunque presentare apposita richiesta di ammonimento al Questore.  a seguito della quale il Questore, preso atto della richiesta, qualora la ritenga fondata, emette un decreto di ammonimento orale nei confronti dello stalker; nelle ipotesi più gravi è opportuno presentare una querela. Questa può essere sporta entro sei mesi dai fatti incriminati. Il Tribunale, accertata la responsabilità penale dell’imputato, può emettere nei suoi confronti un’ordinanza restrittiva che impone allo stalker di lasciare la propria abitazione e di non avvicinarsi oltre i 500 metri al condominio per un determinato periodo di tempo.

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Stalking: integra il reato perseguitare la propria ex con la scusa di vedere il figlio

10 Aprile 2020 Da Staff Lascia un commento

Integra il reato di stalking o atti persecutori, disciplinato dall’art. 612 bis c.p., la condotta di colui il quale, strumentalizzando il proprio diritto di fare il padre, perseguiti la propria ex.

E’ quanto stabilito dalla V sezione penale della Suprema Corte di Cassazione con la recentissima sentenza in commento n. 10904/2020.

Cosa è lo “stalking”?

Lo stalking consiste nella messa in atto di condotte persecutorie reiterate nel tempo idonee ad ingenerare un grave stato di ansia o paura, per la propria o altrui incolumità, nella persona che le subisce.

Il reato di atti persecutori, o stalking, è stato introdotto nell’ordinamento italiano dal D.L. n. 11/2009, convertito dalla L. n. 38/2009. E’ stato dunque inserito nel codice penale, all’art. 612 bis,  tra i delitti contro la persona.

L’introduzione del reato di stalking nell’ordinamento penale rappresenta la risposta normativa che il legislatore italiano ha inteso dare per fronteggiare la repentina crescita del preoccupante fenomeno in questione nella società odierna.

Difatti, l’intento principale del  legislatore nazionale è stato quello di fornire una risposta sanzionatoria a tutti quei comportamenti che venivano inquadrati e disciplinati da altre e meno gravi fattispecie di delitti, talvolta inidonee a garantire adeguata tutela alle vittime.

Il fatto

Una donna sporgeva denuncia nei confronti dell’ex convivente, uomo con il quale aveva avuto un figlio. L’uomo era accusato di aver messo in atto condotte riconducibili alla fattispecie delittuosa di cui all’art. 612 bis c.p. In particolare, la donna sosteneva di essere vittima di continue minacce, pedinamenti, innumerevoli chiamate telefoniche da parte dell’ex compagno.

Il giudizio di primo grado terminava con la condanna dell’imputato per il reato di atti persecutori, ai sensi dell’art. 612 bis c.p., ai danni della ex convivente.

La sentenza resa in primo grado veniva confermata dal giudice di appello.

Il ricorso in Cassazione

L’uomo ricorreva dinanzi i giudici di legittimità sollevando ben otto motivi di ricorso.

In particolare, con il terzo motivo, il ricorrente si soffermava sull’impossibilità di configurare il reato contestato a causa dell’inattendibilità delle dichiarazioni rese in giudizio dalla ex  convivente e dai testimoni.  

A parere del ricorrente, come già illustrato in fase di appello, «l’equivoco di fondo sarebbe consistito nel ritenere vessatorie quelle condotte messe in atto al solo fine di esercitare il proprio diritto, garantito peraltro dalla normativa comunitaria, di avere rapporti affettivi e di frequentazione con il figlio minore».

In breve, le condotte vessatorie a lui attribuite avrebbero dovuto considerarsi come l’estrinsecazione del suo diritto di mantenere un rapporto significativo con il figlio. Pertanto, i giudici di merito avrebbero dovuto riconoscere la scriminante dell’esercizio di un diritto ricollegabile al suo ruolo di genitore.

L’iter decisionale degli Ermellini

Innanzitutto la Cassazione ribadisce che, in sede di legittimità, non  si può procedere a una “rilettura” degli elementi di fatto posti alla base di una decisione. Invero, la valutazione di detti elementi spetta al solo giudice di merito.

Ne discende che il ricorso è inammissibile nella parte in cui pretende una ri-valutazione degli elementi probatori al fine di ottenere una pronuncia contraria a quella emessa.

Altresì, gli Ermellini precisano che le dichiarazioni rese dalla vittima nel corso del giudizio costituiscono una base decisionale solida ed imprescindibile.  

Inoltre, la Corte ritiene prive di ogni rilievo le argomentazioni relative al diritto di mantenere il rapporto con il figlio. Le condotte vessatorie poste in essere, contestate e provate, sono dirette esclusivamente alla madre del bambino. Questi comportamenti non hanno nessun collegamento con la condizione di genitore dell’imputato. I pedinamenti, le minacce e le offese rivolte alla persona offesa non hanno la finalità d’incontrare o avere informazioni sul bambino.

Dal racconto della vittima, ritenuta attendibile dai giudici di merito, emerge che l’imputato si sia reso responsabile di vere e propri incursioni in casa, danni alla vettura, innumerevoli chiamate telefoniche a tutte le ore del giorno, minacce di morte, atti vandalici e pedinamenti.

Nessuno di questi comportamenti sarebbe da ricondurre all’espletamento del ruolo genitoriale, anzi!

Alla luce delle superiori argomentazioni, la Suprema Corte rigettava il ricorso proposto dall’uomo. Confermava, così, le conclusioni cui erano pervenuti i giudici di merito.

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