Integra il reato di stalking o atti persecutori, disciplinato dall’art. 612 bis c.p., la condotta di colui il quale, strumentalizzando il proprio diritto di fare il padre, perseguiti la propria ex.
E’ quanto stabilito dalla V sezione penale della Suprema Corte di Cassazione con la recentissima sentenza in commento n. 10904/2020.
Cosa è lo “stalking”?
Lo stalking consiste nella messa in atto di condotte persecutorie reiterate nel tempo idonee ad ingenerare un grave stato di ansia o paura, per la propria o altrui incolumità, nella persona che le subisce.
Il reato di atti persecutori, o stalking, è stato introdotto nell’ordinamento italiano dal D.L. n. 11/2009, convertito dalla L. n. 38/2009. E’ stato dunque inserito nel codice penale, all’art. 612 bis, tra i delitti contro la persona.
L’introduzione del reato di stalking nell’ordinamento penale rappresenta la risposta normativa che il legislatore italiano ha inteso dare per fronteggiare la repentina crescita del preoccupante fenomeno in questione nella società odierna.
Difatti, l’intento principale del legislatore nazionale è stato quello di fornire una risposta sanzionatoria a tutti quei comportamenti che venivano inquadrati e disciplinati da altre e meno gravi fattispecie di delitti, talvolta inidonee a garantire adeguata tutela alle vittime.
Il fatto
Una donna sporgeva denuncia nei confronti dell’ex convivente, uomo con il quale aveva avuto un figlio. L’uomo era accusato di aver messo in atto condotte riconducibili alla fattispecie delittuosa di cui all’art. 612 bis c.p. In particolare, la donna sosteneva di essere vittima di continue minacce, pedinamenti, innumerevoli chiamate telefoniche da parte dell’ex compagno.
Il giudizio di primo grado terminava con la condanna dell’imputato per il reato di atti persecutori, ai sensi dell’art. 612 bis c.p., ai danni della ex convivente.
La sentenza resa in primo grado veniva confermata dal giudice di appello.
Il ricorso in Cassazione
L’uomo ricorreva dinanzi i giudici di legittimità sollevando ben otto motivi di ricorso.
In particolare, con il terzo motivo, il ricorrente si soffermava sull’impossibilità di configurare il reato contestato a causa dell’inattendibilità delle dichiarazioni rese in giudizio dalla ex convivente e dai testimoni.
A parere del ricorrente, come già illustrato in fase di appello, «l’equivoco di fondo sarebbe consistito nel ritenere vessatorie quelle condotte messe in atto al solo fine di esercitare il proprio diritto, garantito peraltro dalla normativa comunitaria, di avere rapporti affettivi e di frequentazione con il figlio minore».
In breve, le condotte vessatorie a lui attribuite avrebbero dovuto considerarsi come l’estrinsecazione del suo diritto di mantenere un rapporto significativo con il figlio. Pertanto, i giudici di merito avrebbero dovuto riconoscere la scriminante dell’esercizio di un diritto ricollegabile al suo ruolo di genitore.
L’iter decisionale degli Ermellini
Innanzitutto la Cassazione ribadisce che, in sede di legittimità, non si può procedere a una “rilettura” degli elementi di fatto posti alla base di una decisione. Invero, la valutazione di detti elementi spetta al solo giudice di merito.
Ne discende che il ricorso è inammissibile nella parte in cui pretende una ri-valutazione degli elementi probatori al fine di ottenere una pronuncia contraria a quella emessa.
Altresì, gli Ermellini precisano che le dichiarazioni rese dalla vittima nel corso del giudizio costituiscono una base decisionale solida ed imprescindibile.
Inoltre, la Corte ritiene prive di ogni rilievo le argomentazioni relative al diritto di mantenere il rapporto con il figlio. Le condotte vessatorie poste in essere, contestate e provate, sono dirette esclusivamente alla madre del bambino. Questi comportamenti non hanno nessun collegamento con la condizione di genitore dell’imputato. I pedinamenti, le minacce e le offese rivolte alla persona offesa non hanno la finalità d’incontrare o avere informazioni sul bambino.
Dal racconto della vittima, ritenuta attendibile dai giudici di merito, emerge che l’imputato si sia reso responsabile di vere e propri incursioni in casa, danni alla vettura, innumerevoli chiamate telefoniche a tutte le ore del giorno, minacce di morte, atti vandalici e pedinamenti.
Nessuno di questi comportamenti sarebbe da ricondurre all’espletamento del ruolo genitoriale, anzi!
Alla luce delle superiori argomentazioni, la Suprema Corte rigettava il ricorso proposto dall’uomo. Confermava, così, le conclusioni cui erano pervenuti i giudici di merito.
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