• Passa al contenuto principale
  • Passa al piè di pagina

Studio Legale Avvocato Antonella Arcoleo

Legum servi sumus ut liberi esse possimus

  • Avvocato Arcoleo
  • Lo Studio
    • Gli Avvocati
    • I Professionisti
    • I Clienti
  • Attività
    • Parametri forensi
    • Diritto di Famiglia
    • Diritto penale minorile
    • Obbligazioni
      • Contrattualistica
      • Recupero crediti
    • Successioni e Donazioni
  • Domiciliazioni
  • Blog
    • I nostri articoli
    • In breve
    • Legge e Giurisprudenza
    • Aggiornamenti
  • Dove Siamo
  • Contatti
  • Patrocinio

coniugi

Sepoltura: Il coniuge può scegliere il luogo di sepoltura del consorte solo in assenza di una volontà espressa

5 Ottobre 2022 Da Staff Lascia un commento

Sepoltura: il coniuge può scegliere il luogo di sepoltura del consorte solo in assenza di una
volontà espressa.

Secondo la Suprema Corte di Cassazione, la scelta del luogo di sepoltura del coniuge spetta al consorte sopravvissuto solo ove il coniuge deceduto non abbia espresso a tal proposito alcuna volontà dimostrabile in qualsiasi modo, anche mediante prova testimoniale.

A stabilire il summenzionato principio di diritto è la Corte di Cassazione con ordinanza
n. 2218/2022.

Il caso

Un coniuge superstite, a seguito del decesso della moglie, agiva in giudizio per chiedere al Tribunale competente lo spostamento del luogo di sepoltura della predetta presso il cimitero sito nel luogo di residenza della coppia.

La domanda veniva rigettata sia in primo grado sia da parte della Corte d’Appello
competente.

Ed in particolare, tale ultima Autorità si occupava di indagare quali fossero state le volontà manifestate in vita dalla defunta circa il proprio luogo di sepoltura. Dopo avere escusso le relative prove testimoniali, la Corte d’Appello territorialmente competente rigettava la richiesta di spostamento del luogo di sepoltura della defunta moglie ritenendo attendibili e coerenti con tale decisione le dichiarazioni dei testimoni
più vicini alla defunta nel suo ultimo periodo di vita.

La decisione della Corte di Cassazione

Il coniuge superstite proponeva, quindi, ricorso per Cassazione avverso la decisione
della Corte d’Appello. La Suprema Corte stabiliva il principio di diritto secondo cui, in assenza di disposizione testamentaria, la volontà del de cuius in ordine al proprio luogo di sepoltura può
essere dimostrata con qualunque mezzo, compresa la prova testimoniale, non sussistendo un diritto del coniuge superstite in ordine a tale scelta.
È, infatti, pacifica per la giurisprudenza di legittimità la prevalenza del diritto del coniuge superstite, su quello di altri congiunti, di scegliere il luogo di sepoltura del coniuge defunto in mancanza di volontà espressa al riguardo da parte di quest’ultimo.
Tuttavia, gli Ermellini non ritenevano applicabile tale principio di diritto nel caso di specie. E ciò in virtù del fatto che il desiderio della defunta in merito fosse stato ben espresso e desunto dalle testimonianze delle persone che erano state più vicine alla stessa durante il suo ultimo anno di vita.

Pertanto, ad avviso della Suprema Corte, i giudici di secondo grado hanno correttamente ritenuto dimostrata la volontà specifica espressa da parte attrice.

Potrebbe anche interessarti: “Gioielli regalati durante il matrimonio, è possibile chiederne la restituzione?”. Leggi qui. 

Archiviato in:I nostri articoli, Legge e Giurisprudenza Contrassegnato con: coniuge erede, coniugi, decisioni post mortem, eredità, tumulazione

Diritto di abitazione al coniuge superstite

15 Novembre 2021 Da Staff Lascia un commento

Diritto di abitazione: in caso di morte del coniuge, il coniuge superstite gode del diritto abitazione dell’immobile adibito a casa familiare se il bene è in comproprietà con terze persone?

La questione giuridica

La questione, più volte discussa in giurisprudenza, viene affrontata nuovamente dalla Corte di Cassazione con la recente ordinanza n. 29162/2021.

In particolare, la vicenda riguardava un giudizio avente ad oggetto la divisione di una comunione ereditaria.  Nel corso del procedimento, la vedova di uno dei comproprietari dell’immobile, rilevava che durante il matrimonio con quest’ultimo il predetto era adibito a casa coniugale. Pertanto, la donna chiedeva in via riconvenzionale, il diritto di uso e di abitazione sulla quota di un terzo della casa spettante al marito deceduto. In subordine, chiedeva la liquidazione in proprio favore per equivalente della suddetta quota.

Entrambe le domande però venivano rigettate dal Tribunale. La Corte di Appello adita, inoltre, in sede di gravame proposto dalla vedova confermava la decisione dei giudici di primo grado.

La donna ricorreva in Cassazione

Giunta alla valutazione di legittimità, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso. Ed in particolare, gli Ermellini chiarivano che: la locuzione “di proprietà del defunto o comuni“, contenuta nel secondo comma dell’art. 540 del Codice Civile, va interpretata alla luce della ratio del diritto di abitazione e della sua stretta connessione con l’esigenza di godere dell’abitazione familiare.

Nel prevedere l’ipotesi della casa comune, il legislatore si riferisce esclusivamente alla comunione con l’altro coniuge. Ciò tenuto conto che il regime della comunione è quello legale e quindi presumibilmente il più frequente a verificarsi; nel caso in cui vi sia un comproprietario, invece, sono esclusi i presupposti per la nascita del diritto di abitazione. Ed invero, in questo caso non realizzabile è l’intento del legislatore di assicurare in concreto al coniuge il godimento pieno del bene oggetto del diritto.

Pertanto, il suddetto diritto di abitazione può sorgere solo se vi è la possibilità di soddisfare l’esigenza abitativa in concreto.

In conclusione

In sostanza, pertanto, il diritto di abitazione non nasce se l’esigenza abitativa non può soddisfarsi essendo l’immobile appartenente anche ad estranei.

Con la medesima pronuncia, la Corte di Cassazione, inoltre, esclude il diritto del coniuge superstite ad ottenere l’equivalente monetario nei limiti della quota di proprietà del coniuge defunto. Tale conclusione poiché, contrariamente ragionando, si finirebbe per attribuire “un contenuto economico di rincalzo al diritto di abitazione che, invece, ha un senso solo se apporta un accrescimento qualitativo alla successione del coniuge superstite, garantendo in concreto l’esigenza di godere dell’abitazione familiare”.

Potrebbe anche interessarti “Convivenza con altro uomo: non viene meno l’assegno di divorzio (Cass.26628/2021)”. Leggi qui.

 

 

Archiviato in:I nostri articoli, Legge e Giurisprudenza Contrassegnato con: casa coniugale, casa familiare, coniuge defunto, coniugi, divisione immobiliare

Assegno alimentare: non va corrisposto se il coniuge richiedente non prova lo stato di bisogno

28 Ottobre 2020 Da Staff Lascia un commento

“L’assegno alimentare non spetta al coniuge richiedente in assenza della prova dello stato di bisogno. Quest’ultimo va escluso quando residui una capacità lavorativa generica compatibile con la presenza di una patologia psicofisica”.  A stabilire il superiore principio di diritto la Corte di Cassazione con la sentenza n. 770 del 16.01.2020

Il fatto

Nel corso di un giudizio di separazione personale, una donna chiedeva al marito la corresponsione di un assegno alimentare, ai sensi dell’art. 446 c.c. La donna asseriva di essere priva di occupazione lavorativa, e dunque impossibilitata a provvedere al proprio sostentamento, in quanto affetta da una grave ed invalidante sindrome depressiva.

Il Tribunale, in primo grado, riconosceva alla donna il diritto ad ottenere un assegno mensile provvisorio pari ad euro 200.

Tuttavia la Corte di Appello di Brescia, successivamente adita dal marito, negava l’assegno. In particolare i giudici di secondo grado riconoscevano in capo alla ricorrente, pur in presenza della malattia, la capacità di svolgere un lavoro anche «meramente esecutivo», quale ad esempio le faccende domestiche.

A fronte di detto provvedimento,  la donna ricorreva in Cassazione. Essa lamentava l’omessa valutazione della sussistenza dello stato di bisogno patito. Per di più, denunciava la mancata valutazione della documentazione medica prodotta nel corso del giudizio.

Facciamo un passo indietro: cosa si intende per “capacita lavorativa generica”?

In generale, per «capacità lavorativa» si intende l’attitudine di una persona a produrre un reddito, questo derivante da un’occupazione lavorativa.

Si suole distinguere tra capacità lavorativa generica e specifica. La prima espressione fa riferimento all’idoneità della persona a svolgere un ventaglio indefinito di attività lavorative.

Invece, la seconda sussiste quando il soggetto sia in grado di svolgere una specifica attività lavorativa ovvero di estrinsecare diverse attività lavorative. Queste ultime, in ogni caso, afferenti alla sua sfera attitudinale e compatibili con fattori quali età, sesso, grado di istruzione ed esperienza lavorativa.

Assegno di mantenimento e assegno alimentare: differenze

Ritornando al delicato tema in esame, l’obbligo alimentare si distingue nettamente dal diritto al mantenimento previsto dall’art. 156 c.c. Invero, il diritto all’assegno alimentare presuppone lo stato di indigenza di colui che lo richiede.

Più nello specifico, il diritto agli alimenti è legato alla prova dello stato di bisogno. Ma non solo! Il diritto alimentare dipende altresì dall’impossibilità del soggetto di provvedere al proprio sostentamento mediante l’esplicazione di attività lavorativa legata alle attitudini della persona e non considerata in termini astratti.

La pronuncia in esame offre un’interpretazione alquanto restrittiva circa il riconoscimento del diritto agli alimenti: permette di escludere lo “stato di bisogno” dinanzi ad un’astratta capacità del coniuge richiedente allo svolgimento di una attività lavorativa, anche meramente esecutiva, che non si presti ad essere condizionata dalla presenza della patologia accertata. Nel caso di specie, la sindrome depressiva patita dal coniuge.

Non sono di certo mancate le critiche rivolte a questa corrente di pensiero. Si è precisato, in merito, che lo stato di bisogno non può essere valutato secondo nozioni di carattere generale. Così facendo verrebbero meno le ragioni di solidarietà familiare che costituiscono, invece, il reale fondamento delle norme in esame.

La valutazione circa l’insussistenza di mezzi richiede, pertanto, un’ indagine accurata da parte dell’organo giudicante: questa deve essere portata avanti tenendo conto dei fattori individuali, ambientali, territoriali, economici e culturali riferibili all’esperienza di vita del richiedente.

La decisione degli Ermellini

Nel caso di specie, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso della donna, dichiarando inammissibili  i motivi di ricorso addotti.

I giudici di legittimità ritenevano di confermare il ragionamento della Corte di Appello. In particolare riconoscevano in capo alla ricorrente l’idoneità a svolgere un lavoro anche meramente esecutivo (come quello delle pulizie domestiche), richiamando così il concetto di capacità lavorativa generica.

Potrebbe anche interessarti “Assegno divorzile ridotto per il coniuge in perenne attesa di occupazione”. Leggi qui.

Archiviato in:I nostri articoli, Legge e Giurisprudenza Contrassegnato con: assegno alimentare, assegno di mantenimento, coniugi, divorzio, separazione, separazione legale, stato di bisogno

Assegno di divorzio: ridotto se il matrimonio è di breve durata e se l’ex coniuge eredita dei beni

11 Giugno 2020 Da Staff Lascia un commento

In materia di assegno di divorzio è tornata a pronunciarsi la Corte di Cassazione.

Questa ha stabilito che l’assegno di divorzio va ridotto in presenza di circostanze quali: la cospicua eredità percepita dall’ex coniuge e la breve durata del rapporto matrimoniale (Cass. civ., Ord. n. 10647/2020).

Il caso

La Corte d’Appello rigettava il ricorso di un uomo volto ad ottenere la riduzione dell’assegno divorzile in favore della ex moglie.

L’uomo fondava la richiesta su diversi motivi: 1) il peggioramento delle proprie condizioni economiche. 2) la rosea situazione reddituale della ex moglie: la donna, oltre ad essere proprietaria di alcuni immobili, aveva ricevuto in eredità una somma di denaro pari a circa 120.000,00 euro.

I giudici di merito sottolineavano che il ricorrente, avvocato, percepiva una pensione di euro 4.500,00; possedeva molteplici immobili (di cui uno in locazione a terzi) ed aveva sottoposto la villa di proprietà a vincolo di destinazione in favore della nuova moglie.

Dunque, pur riconoscendo un miglioramento della situazione reddituale della ex moglie, la Corte adita rappresentava come la stessa al momento della pronuncia di divorzio fosse comunque priva di occupazione lavorativa.

Per tali ragioni, la Corte di Appello rigettava il ricorso. Affermava che il miglioramento delle condizioni economiche della ex moglie non rappresentasse un motivo sufficiente per accogliere la domanda.

Il ricorso in Cassazione

L’uomo ricorreva dinanzi la Corte di legittimità, sollevando i seguenti motivi di doglianza.

Con il primo motivo egli lamentava la mancata applicazione dei criteri di attribuzione e quantificazione dell’assegno di divorzio. Ciò in quanto la ex moglie, con la quale non aveva avuto figli, non si era mai preoccupata di contribuire alle spese di famiglia. In più, il ricorrente affermava di essere titolare di una pensione di 1.800,00 euro e non di 4.500,00.

Con il secondo, egli lamentava l’omessa valutazione della circostanza delle nuove nozze.

Con il terzo, infine, rilevava la mancata considerazione del miglioramento delle condizioni reddituali della ex moglie alla luce del lascito ereditario.

La Cassazione riteneva fondati i motivi avanzati dall’ex marito

La Suprema Corte affermava che, ai sensi dell’art. 9 della legge sul divorzio, per procedere alla riduzione dell’assegno è necessario accertare la sopravvenuta modifica delle condizioni economiche degli ex coniugi rispetto all’assetto definito in sede di divorzio, attraverso la comparazione delle rispettive situazioni, in ossequio ai principi giurisprudenziali attuali (cfr Cass. civ., n. 1119/2020).

Dunque, ai fini della riduzione dell’assegno è necessario che si rinvengano elementi fattuali idonei a destabilizzare l’assetto patrimoniale. Il giudice, in presenza di queste modifiche, è tenuto ad applicare i principi in materia per modulare l’assegno di divorzio.

Tornando al caso di specie, la Cassazione rilevava che i giudici di merito non avevano valutato correttamente gli elementi dedotti dal ricorrente. Primi tra tutti la cospicua eredità acquisita dalla ex moglie. Secondo, poi, i sopravvenuti oneri del marito per il nuovo matrimonio: da tempo la giurisprudenza valuta tali circostanze come idonee a modificare la misura dell’assegno di divorzio.

Infine, la Corte di Appello non aveva attribuito rilevanza neppure alla limitata durata del vincolo matrimoniale. Anch’esso elemento fattuale di cui tener conto per l’attribuzione e la quantificazione dell’assegno.

Alla luce delle superiori argomentazioni, la Cassazione accoglieva il ricorso dell’uomo.

Potrebbe anche interessarti”Ritardo mantenimento: se l’obbligato ritarda a versare il contributo paga l’Inps”. Leggi qui.

Archiviato in:Legge e Giurisprudenza Contrassegnato con: assegno, coniugi, divorzio, mantenimento, separazione

Addebito separazione: per la Cassazione sono sufficienti 48 ore fuori di casa

20 Gennaio 2020 Da Staff Lascia un commento

L’addebito della separazione può essere contestato alla “donna che abbandona, anche solo per due giorni, il tetto coniugale per poi ritornare a seguito di un ripensamento nel caso in cui comunque successivamente si proceda allo scioglimento del vincolo coniugale” (Cass. Civ. Ord. 509/2020 del 11.01.2020).

Addebito della separazione nell’ordinamento italiano

L’art. 151 comma 2 del codice civile individua i presupposti in presenza dei quali, il giudice, su richiesta di parte, individua a chi dei coniugi è addebitabile la separazione. 

Addebitare la separazione significa, pertanto, individuare chi dei due coniugi ha determinato il fallimento del matrimonio. La crisi quindi deve conseguire a causa del comportamento di uno di essi il quale, così facendo, ha reso intollerabile la prosecuzione del coniugio.

Dunque nel caso in cui  l’autorità giudiziaria appuri che la rottura dell’unione coniugale è dipesa dalla violazione, da parte di una sola delle parti dei doveri disciplinati dall’art. 143 c.c. ove sussista specifica richiesta in tal senso, potrà pronunciare sentenza di separazione con addebito.

Presupposti dell’addebito secondo la giurisprudenza maggioritaria

L’orientamento giurisprudenziale maggioritario, tuttavia, ai fini del riconoscimento dell’addebito ritiene necessario che la violazione dei doveri coniugali sia antecedente alla richiesta di separazione. In particolare è necessario dimostrare che sussiste un rapporto di causa-effetto tra la violazione stessa e la sopravvenuta intollerabilità della convivenza.

A tal proposito, in numerose occasioni la Cassazione si è pronunciata in materia di addebito della separazione nei casi di tradimento. Anche in tali casi rilievo fondamentale è stato dato al fattore temporale. Invero,  anche in caso di tradimento l’addebito della separazione è possibile solo se l’infedeltà è stata la causa della crisi coniugale e non il suo effetto.

Tornando al caso di specie…

Con l’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione ha ritenuto che alla donna, colpevole di avere lasciato l’abitazione coniugale per soli due giorni, per poi ritornare sui propri passi, debba essere addebitata la separazione.

Gli Ermellini hanno confermato la sentenza emessa dai giudici di merito, ritenendo la fuga di sole 48 ore dal domicilio domestico la causa del fallimento del matrimonio. In particolare la donna non ha dimostrato che il matrimonio fosse già in crisi. Non ha neppure dimostrato di avere ricevuto  pressioni, violenza o minaccia da parte del marito.

Di conseguenza i giudici chiamati a decidere del caso, considerando il “carattere unilaterale e non temporaneo della decisione di abbandonare la residenza familiare ponendo fine alla vita coniugale”, accoglievano la domanda del marito volta all’accertamento dell’addebito.

Conseguenze dell’addebito

Quali sono le conseguenze in termini giuridici dell’addebito? Le conseguenze sono prevalentemente di carattere patrimoniale. 

Il coniuge cui è stata addebitata alla separazione perde infatti il diritto a ricevere un eventuale assegno di mantenimento. Tuttavia permane il diritto agli alimenti, ma sempre che ne sussistano i presupposti. Ciò significa che  potrà percepire somme di denaro solo nel caso in cui si trovi in una situazione di bisogno.  

Rilevanti inoltre sono gli effetti della pronuncia di addebito della separazione in ambito successorio. Il coniuge separato con addebito, infatti, perde i diritti di successione inerenti allo stato coniugale.  Conserva esclusivamente il diritto a un assegno vitalizio, laddove, all’apertura della successione, godesse già dell’assegno alimentare.

Altro effetto dell’addebito della separazione è la perdita del diritto alla pensione di reversibilità e alle altre indennità e prestazioni previdenziali riconosciute al coniuge defunto.

Potrebbe anche interessarti “Addebito: non bastano il tradimento e l”allontanamento da casa”, leggi qui.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Archiviato in:Legge e Giurisprudenza Contrassegnato con: abbandono tetto coniugale, addebito, coniugi, divorzio, pronuncia di addebito, separazione

Rapporti sessuali tra coniugi: è reato senza consenso

1 Luglio 2019 Da Studio Legale Arcoleo Lascia un commento

I rapporti sessuali non possono mai prescindere dal consenso. Anche nell’ambito di un matrimonio o di un legame parafamiliare. Se il consenso manca è violenza sessuale.  Infatti non esiste nel nostro ordinamento un c.d. “diritto all’amplesso” che giustifichi un rapporto sessuale non consenziente. (Cass. 46051/2018). 

Un uomo è stato condannato in primo e in secondo grado per tentata violenza sessuale nei confronti della moglie (art. 56 e 609 bis c.p.).

In numerose occasioni, infatti, il marito aveva costretto la donna ad avere rapporti sessuali contro la sua volontà, obbligandola con le minacce e con la forza.

L’ultimo tentativo però non gli era andato a buon fine grazie alla reazione della donna e al tempestivo intervento delle figlie.

L’uomo ha quindi fatto ricorso in Cassazione. Lamentava, tra le altre cose, che i giudici di merito non avessero riconosciuto la desistenza dai suoi intenti.

Al riguardo gli Ermellini sono stati categorici. E hanno ricordato all’uomo come egli non avesse  desistito per sua volontà ma a causa dell’intervento delle figlie.

Quindi, non solo la Suprema Corte ha ritenuto di dover confermare la condanna nei confronti dell’uomo, ma anche di non applicare le attenuanti generiche.

Infatti la condotta dell’uomo è da considerarsi grave in quanto manchevole del senso del rispetto e della dignità della persona. Ed in particolare della donna, concepita come “strumento di piacere”.

Con la sentenza in oggetto la Suprema Corte ha però soprattutto voluto ribadire un principio importante. Il fatto che due persone siano sposate non giustifica le pretese sessuali di una nei confronti dell’altra. Quindi anche tra marito e moglie i rapporti sessuali devono essere espressione del consenso costante di entrambi i membri della coppia.

Precisano anche gli Ermellini che non esiste un diritto potestativo del marito a che la moglie soddisfi i suoi bisogni sessuali.

E questo in linea con altre pronunce che già in passato avevano negato l’esistenza di un “diritto all’amplesso” nell’ambito di un legame coniugale. Quindi dal matrimonio non scaturisce il potere di un coniuge di esigere dall’altro rapporti sessuali senza il suo consenso.

Potrebbe interessarti anche: 

Archiviato in:Legge e Giurisprudenza Contrassegnato con: coniugi, consenso, diritto potestativo, donna, matrimonio, rapporti sessuali, rispetto

Appropriazione indebita: il reato non sussiste se marito e moglie si riconciliano.

7 Febbraio 2019 Da Studio Legale Arcoleo Lascia un commento

La Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che non si configura reato di appropriazione indebita se, al momento del fatto, i coniugi avevano fatto pace. La riappacificazione consente la corretta operatività della causa di non punibilità prevista dall’art. 649 c.p.  

(Cass. Pen. Sez. V 19 aprile-7 giugno 2018, n. 26020)

Marito e moglie, separati consensualmente dal 2007, sono i protagonisti della vicenda. Nel 2010, lei si era impossessata delle chiavi della casa delle vacanze impedendo all'”ex” marito di recuperare beni personali. In più, in occasione di una lite, aveva aggredito l’uomo tirandogli addosso un cellulare. Per cui la donna era stata condannata sia in primo grado che in appello, per i reati di appropriazione indebita e violenza privata.

La donna aveva impugnato la sentenza di condanna, dinanzi la Corte di Cassazione, sostenendo la mancata applicazione dell’articolo 649 del codice penale. La norma prevede la non punibilità per chi abbia commesso un reato contro il patrimonio in danno del coniuge non legalmente separato.

La ricorrente affermava, a sostegno della sua tesi, che alla data dei fatti, i due non fossero più separati, essendo intervenuta la riconciliazione.

Doverosa appare, quindi, una precisazione per meglio comprendere la decisione degli Ermellini.

Ricordiamo che i coniugi si erano separati consensualmente nel 2007, ed avevano ottenuto il rituale decreto di omologa. Nel 2008 i due decidono di tornare insieme. E il marito intraprende l’azione civile di riconoscimento dell’avvenuta riconciliazione.

La relativa sentenza che sanciva la definitiva perdita di efficacia della  separazione arriva però solo nel 2014.

Ma di fatto, la riconciliazione tra i due era avvenuta ben prima! E proprio su questo fa leva l’argomentazione della donna per contestare la sentenza di condanna. All’epoca dei fatti oggetto di giudizio, i due sostanzialmente già non erano più separati. Quindi, ai sensi dell’art. 649 c.p la donna non era punibile. Perché se è vero che si era impossessata di un mazzo di chiavi, è pur vero che erano le chiavi della casa del marito, con il quale nel frattempo si era riappacificata.

Per questo, secondo la Suprema Corte, la conclusione cui era giunta la Corte d’Appello è da considerare  errata. L’articolo 157 c.c  dice, infatti, che “i coniugi possono far cessare di comune accordo gli effetti della sentenza di separazione, senza che sia necessario l’intervento del giudice, con espressa dichiarazione o con comportamento non equivoco … “.

Quindi, non occorre che il giudice riconosca la riconciliazione tra gli “ex” coniugi; questa può avvenire anche manifestando comportamenti da cui si evince la ritrovata comunione affettiva.

Con la sentenza in esame, la Cassazione ha ritenuto non punibile la donna, sul presupposto che questa avesse commesso il fatto in danno del coniuge non più legalmente separato. Ha quindi annullato la sentenza di condanna.

Archiviato in:Legge e Giurisprudenza Contrassegnato con: appropriazione indebita, coniugi, coppia, giudice, giurisprudenza, reato, riconciliazione, separazione

Footer

Dal nostro blog

Rivalutazione ISTAT dell’assegno di mantenimento, come funziona?

Lavoro casalingo? l’assegno di mantenimento deve essere più alto

Assegno divorzile: il giudice deve contemporaneamente prendere in esame tutti i parametri valutativi indicati dall’art. art. 5 della legge 898/1970?

Patrocinio a spese dello Stato

L’Avv. Antonella Arcoleo è iscritta all’albo dei difensori disponibili al patrocinio a spese dello Stato, noto anche come “gratuito patrocinio”, presso il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Palermo.

Maggiori informazioni

Domiciliazioni a Palermo e Provincia

Lo Studio Legale Arcoleo offre il servizio di domiciliazione. Per richiedere domiciliazioni è possibile inviare una e-mail compilando il modulo presente in questa pagina o contattando la segreteria dello Studio al numero 091 345 126.
Contatti

  • I nostri articoli
  • In breve
  • Legge e Giurisprudenza
  • Aggiornamenti
  • Immagini dello Studio

Copyright © 2023 Arcoleo · P. IVA 04826320824 · Disclaimer · Privacy · SiteMap · WebMail · Accedi

Questo sito utilizza cookie, anche di terze parti, per migliorare l'esperienza di navigazione, gestire la pubblicità e compiere analisi statistica del sito. Utilizzando questo sito si acconsente quindi all'uso dei cookie. E' possibile personalizzare le proprie scelte utilizzando le impostazioni sottostanti.
Accetta tutto
Rifiuta
Impostazioni
Informativa completa
Privacy & Cookies Policy

Privacy Overview

This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary
Sempre abilitato
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Functional
Functional cookies help to perform certain functionalities like sharing the content of the website on social media platforms, collect feedbacks, and other third-party features.
Performance
Performance cookies are used to understand and analyze the key performance indexes of the website which helps in delivering a better user experience for the visitors.
Analytics
Analytical cookies are used to understand how visitors interact with the website. These cookies help provide information on metrics the number of visitors, bounce rate, traffic source, etc.
Advertisement
Advertisement cookies are used to provide visitors with relevant ads and marketing campaigns. These cookies track visitors across websites and collect information to provide customized ads.
Others
Other uncategorized cookies are those that are being analyzed and have not been classified into a category as yet.
ACCETTA E SALVA
Diritto del lavoro

Lo Studio Legale Arcoleo assiste i propri clienti nei vari ambiti del diritto del lavoro, del diritto sindacale e della previdenza sociale, fornendo consulenza sia in ambito stragiudiziale che giudiziale e con riferimento all’istaurazione, allo svolgimento ed alla cessazione del rapporto di lavoro.

A tal fine, lo Studio si avvale di molteplici apporti specialistici (consulenti del lavoro, commercialisti) anche nelle questioni che investono discipline complementari, per garantire alla clientela un’assistenza ancora più completa grazie ad un miglior coordinamento tra le diverse professionalità.

Diritto penale di famiglia

L’Avv. Antonella Arcoleo coadiuvato  da altri professionisti come avvocati psicologi e mediatori è da sempre impegnato in prima linea per difendere e tutelare i diritti fondamentali della persona in caso di abusi o violenze e offre consulenza e assistenza legale.

Assistenza alle aziende

Lo Studio Legale Arcoleo vanta un’importante esperienza nell’assistenza alle imprese.

Alla base del successo di ogni azienda vi è la particolare attenzione per gli aspetti legali strettamente correlati al business che se correttamente e tempestivamente curati garantiscono alle imprese una sensibile riduzione del contenzioso.

Lo Studio Legale Arcoleo garantisce ai propri clienti attività di consulenza costante e continuativa anche a mezzo telefono e tramite collegamento da remoto.