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separazione giudiziale

Infedeltà del coniuge: la sopportazione dell’infedetà non esclude l’addebito della separazione

20 Ottobre 2022 Da Staff Lascia un commento

Infedeltà del coniuge: la sopportazione dell’infedeltà del coniuge non esclude l’addebito della separazione.
Secondo la Suprema Corte di Cassazione, l’atteggiamento di tolleranza del marito nei
confronti della moglie non è sufficiente a giustificare il rigetto della domanda di
addebito della separazione.
A stabilire il summenzionato principio di diritto è la Corte di Cassazione, con
ordinanza n. 25966 del 2 settembre 2022.

Il caso

Nell’ambito di un travagliato procedimento per separazione di un noto imprenditore
italiano, quest’ultimo adiva la Corte di Cassazione censurando la sentenza emessa
dalla Corte d’Appello di merito nella parte in cui rigettava la domanda di addebito
della separazione dallo stesso proposta nei confronti della moglie.
Ed in particolare, il ricorrente sosteneva come la tolleranza, dallo stesso manifestata,
nei confronti di precedenti relazioni extraconiugali avute dalla moglie nel corso del
matrimonio non impedisse di lamentarsi di ulteriori relazioni extraconiugali successive.
Ciò, soprattutto, quando, come nel caso in esame, le stesse siano risultate numerose
e continuate.

La decisione della Corte di Cassazione

Ebbene, i giudici di legittimità ritengono fondata la censura mossa dal ricorrente.
Ed in particolare, ad avviso degli Ermellini, l’accettazione da parte del ricorrente di
comportamenti lesivi del dovere di fedeltà tenuti dalla moglie anni prima della
proposizione della domanda di separazione non può escludere di far valere, quale
causa di addebito, analoghi comportamenti tenuti successivamente dalla donna.
In tema di separazione personale dei coniugi, la giurisprudenza sostiene che la
dichiarazione di addebito implica la prova che l’irreversibile crisi coniugale sia da
ricondurre in via esclusiva al comportamento, tenuto da uno dei coniugi, che sia
consapevolmente e volontariamente contrario ai doveri nascenti del matrimonio.
Tale principio è, peraltro, applicabile anche all’inosservanza dell’obbligo di fedeltà
coniugale, ritenuta sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge
responsabile.

Alla stregua di tali pacifici assunti, la Corte di Cassazione afferma che la tolleranza
manifestata dal ricorrente nei confronti della relazione extraconiugale intrapresa dalla
moglie alcuni anni prima della proposizione della domanda di separazione non
esclude la possibilità di fare valere, quale causa di addebito, analoghi comportamenti
tenuti successivamente dalla donna.
Ciò in quanto, a tale ultimo fine, occorre prendere in esame la successiva evoluzione
del rapporto coniugale accertando se si siano verificate nuove violazioni del dovere di
fedeltà e quale sia stata la reazione dell’altro coniuge.
Ed in particolare, ciò che è necessario verificare è se a seguito della cessazione della
predetta relazione la vita coniugale sia ripresa regolarmente, senza ulteriori violazioni
del dovere di fedeltà, oppure se la donna abbia intrapreso altre relazioni
extraconiugali senza che il marito vi desse importanza.
Solo ed esclusivamente in tali ipotesi, secondo gli Ermellini, si sarebbe potuto
concludere che non erano state le iniziali infedeltà ad impedire la prosecuzione della
convivenza, divenuta intollerabile per altre ragioni, che avevano fatto venir meno
l’affectio coniugalis.

Potrebbe interessarti “Addebito: un nuovo innamoramento non giustifica la cessazione della convivenza coniugale”. Leggi qui.

Archiviato in:I nostri articoli, Legge e Giurisprudenza Contrassegnato con: addebito separazione, divorzio, pronuncia di addebito, separazione, separazione giudiziale, tradimento

Niente mantenimento al coniuge che rifiuta lavori umili (Cass. Ord. 5932 del 4 marzo 2021)

23 Giugno 2021 Da Staff Lascia un commento

Con l’ordinanza n. 5932 del 4 marzo 2021, la Corte di Cassazione affronta nuovamente il tema del diritto del coniuge a beneficiare di un assegno di mantenimento. In particolare, gli ermellini affrontano la questione che si prospetta quando la mancanza di redditi del richiedente sia conseguenza:

  • di un rifiuto ad una specifica opportunità lavorativa;
  • della inattività a cercare una occupazione lavorativa che non sia strettamente pertinente al titolo di studio.
Il caso

Nel caso di specie, la Corte d’Appello di Trieste confermava la decisione del Tribunale di primo grado. Poneva quindi  in capo al marito l’obbligo di versare alla moglie un contributo al mantenimento pari ad € 1.000 mensili. Nella motivazione, la Corte territoriale giustificava il rifiuto di un impiego lavorativo perché ritenuto non adeguato al titolo di studio e alle aspirazioni individuali del coniuge richiedente. Affermava quindi che “il profilo individuale…non va mortificato con possibili occupazioni inadeguate”. Riteneva svilente che una persona laureata potesse essere “condannata al banco di mescita o al badantato”.

L’uomo ricorreva in Cassazione

Tuttavia la Suprema Corte, valutando diversamente gli elementi, accoglieva il ricorso proposto dal marito. Gli ermellini censuravano la decisione dei giudici di Appello, osservando che: “in tema di separazione personale dei coniugi, l’attitudine al lavoro proficuo dei medesimi, quale potenziale capacità di guadagno, costituisce elemento che è indispensabile valutare, ai fini delle statuizioni afferenti l’assegno di mantenimento, dovendo il giudice del merito accertare l’effettiva possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita (…); rileva, ad esempio, la possibilità di acquisire professionalità diverse ed ulteriori rispetto a quelle possedute in precedenza, o la circostanza che il coniuge abbia ricevuto, successivamente alla separazione, effettive offerte di lavoro, ovvero che comunque avrebbe potuto concretamente procurarsi una specifica occupazione”.

I giudici di merito si erano limitati ad affermare il diritto della moglie a non reperire un’attività lavorativa reputata inferiore. Tuttavia non avevano valutato gli impieghi effettivamente reperiti o proposti per poterne fondatamente affermare la reale inadeguatezza e inaccettabilità. Di tal guisa giungevano a confermare il diritto al mantenimento sulla base di rilievi astratti, quali la negazione della dignità al lavoro manuale o di assistenza alla persona.

Iter motivazionale della Corte di Cassazione

Detta conclusione è stata tuttavia ritenuta dagli Ermellini in violazione a quanto sancito dall’art. 156 c.c. ; ed invero, al fine di decidere se riconoscere l’assegno di mantenimento al coniuge, deve procedersi alla valutazione anche delle potenziali capacità di guadagno. Pertanto, bisogna tener conto di ogni fattore individuale e ambientale compresa la possibilità di “acquisire professionalità diverse e ulteriori rispetto a quelle possedute in precedenza, o la circostanza che il coniuge abbia ricevuto successivamente alla separazione, effettive offerte di lavoro, ovvero che comunque avrebbe potuto concretamente procurarsi una specifica occupazione.”

Il diritto al mantenimento deciso dal giudice dell’impugnazione si basa quindi su rilievi astratti perfino “giungendo a negare dignità al lavoro manuale o di assistenza alla persona“.  I giudici di merito omettono di considerare, quindi, l’effettiva possibilità della donna di procurarsi da sola redditi adeguati; la volontà di attivarsi nella ricerca di un lavoro e le offerte d’impiego effettivamente respinte.

La Corte suprema, pertanto, cassava con rinvio detta decisione, sancendo un importante principio in diritto, che riconosce dignità ad ogni genere di occupazione lavorativa.

Principio di diritto

Ne consegue che ai fini delle statuizioni afferenti all’assegno di mantenimento, il giudice del merito deve accertare l’effettiva possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita. Occorre valutare ogni concreto fattore individuale e ambientale, quali  ad esempio: la possibilità di acquisire professionalità diverse ed ulteriori rispetto a quelle possedute in precedenza; la circostanza che il coniuge abbia ricevuto, successivamente alla separazione, effettive offerte di lavoro; ovvero che comunque avrebbe potuto concretamente procurarsi una specifica occupazione.

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Assegno di divorzio più alto se il coniuge rinuncia agli studi per la prole

10 Dicembre 2019 Da Staff Lascia un commento

L’assegno di divorzio per la moglie è più alto se l’ex coniuge è obbligata a rinunciare a studiare per stare con i figli (Cass. civ. n. 31359/2019).

Il caso

Una donna ricorre in Cassazione lamentando la mancata valutazione, da parte della Corte di Appello, della diversa situazione economica delle parti. Ma soprattutto che la stessa abbia dovuto rinunciare agli studi universitari per occuparsi della figlia minore.

In particolare la Corte di Appello ha stabilito in € 1000,00 la somma che l’uomo deve versare alla donna a titolo di assegno di divorzio. A fronte di tale mantenimento la donna ricorre in Cassazione non ritenendo equo l’ammontare stabilito dalla Corte di merito. 

A riguardo sono 5 i motivi fondanti il ricorso in Cassazione proposto dalla donna: 1) violazione dell’art. 5 della legge 898/1970 per non aver tenuto conto la Corte della disparità economica tra le parti e per non aver tenuto in debita considerazione l’avere rinunciato agli studi per la figlia. 2) Mancato esame delle diverse situazioni economiche delle parti. 3) Violazione degli artt. 2909 c.c., 112 e 329 c.p.c. per essere stato l’assegno di divorzio oggetto di accertamento, senza che vi fosse stata contestazione del marito. 4) Mancata valutazione del tenore di vita condotto durante il matrimonio. 5) Violazione degli artt. 2909 c.c., 112 e 329 c.p.c. per essere stata fissata la decorrenza dell’assegno dallo scioglimento del matrimonio.

La Corte di Cassazione accoglie il ricorso

Gli ermellini accolgono i primi due motivi del ricorso. Gli altri motivi vengono assorbiti nei primi e rinviano, nuovamente, alla Corte di Appello. Ebbene, quest’ultima dovrà provvedere all’accertamento omesso e comparare i redditi dei due ex coniugi.

Nello specifico la Corte di Cassazione ha ravvisato che il giudice di merito non ha accuratamente  esaminato le rispettive situazioni economiche delle parti. Conseguentemente ha violato un importante principio sancito dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 18287/2018. Tale sentenza, si ricorda, riconosce all’assegno di divorzio una funzione assistenziale e perequativa. Pertanto relativamente alla richiesta di assegno di divorzio “il giudizio deve essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti;  in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e dell’età dell’avente diritto”.

Ad ogni modo, quindi, sono numerose le variabili che il giudice adito deve valutare. Innanzitutto deve verificare se sussistono le condizioni affinché il coniuge più debole possa beneficiare dell’assegno. Fatto ciò, comparando le situazioni economiche e valutando tutti gli altri parametri sopra indicati, dovrà quantificare l’assegno. 

Come si quantifica l’assegno di divorzio

Ebbene, a volte, la quantificazione non è affatto semplice. Infatti il giudice deve valutare attentamente non solo la situazione economica di entrambi. Ma anche l’apporto dato alla famiglia e i sacrifici fatti per la stessa. Nel caso de quo la Corte di Appello dovrà valutare le rinunce che la ex moglie ha fatto e deve fare per poter mantenere la figlia minore. In questo caso la donna ha dovuto rinunciare a laurearsi.  Sacrificio che,probabilmente, non sarebbe stato necessario qualora il matrimonio non fosse naufragato. Pertanto alla donna spetterà un giusto ristoro, in termini di assegno di divorzio, commisurato con la decisione assunta.

Può anche interessarti “La durata del matrimonio incide sull’importo del mantenimento”, leggi qui.

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Animali domestici come figli: il Giudice decide su affidamento e spese.

25 Marzo 2019 Da Studio Legale Arcoleo Lascia un commento

Gli animali domestici sono stati oggetto di una recentissima pronuncia del Tribunale di Sciacca. In mancanza di accordo tra i padroni in sede di separazione, il Giudice ne ha stabilito modalità di affidamento, collocamento e ripartizione delle spese. (Trib. Sciacca, Sez. Unica, Decr. 19/02/2019).

“Il sentimento per gli animali è un valore meritevole di tutela, anche con riferimento al benessere degli animali stessi“. Su questo presupposto il Presidente del Tribunale di Sciacca ha preso una decisione che ha pochi precedenti in Italia.

In Italia non esiste l’istituto dell’affidamento o assegnazione degli animali domestici. Per questo, per molti anni, la giurisprudenza ha sostenuto non fosse compito del Giudice della separazione decidere in tal senso. Con l’unica eccezione, in caso di separazione consensuale, di “benedire” con l’omologa gli accordi pacificamente raggiunti dai coniugi per l’affidamento degli animali familiari.

Il Presidente Tricoli invece si è trovato davanti ad una di quelle separazioni dall’alto tasso di litigiosità tra i coniugi. Tanto da non riuscire a trovare per loro conto un accordo sull’affidamento del cane e del gatto che fino ad allora avevano vissuto con loro.

Così il Giudice, per risolvere la situazione, ha regolato l’affidamento ed il mantenimento dei due animali domestici. Proprio come si farebbe in presenza di figli minori.

Pertanto ha affidato il gatto esclusivamente all’uomo. Questa sistemazione, secondo il Tribunale, assicurerebbe al felino “il miglior sviluppo possibile all’identità dell’animale” (considerando anche che la donna risulta allergica al pelo del gatto).

Invece il dott. Tricoli ha affidato il cane della coppia ad entrambi i coniugi, a settimane alterne, a prescindere dell’effettiva intestazione del microchip. Ed ha ripartito al 50% tra le parti le spese veterinarie e straordinarie per lo stesso.

D’altronde non dobbiamo dimenticare che il problema era già stato portato all’attenzione del Parlamento, mediante una proposta di modifica del codice civile. Tale modifica consisterebbe nell’inserimento dell’art. 445 ter del seguente tenore:
«in caso di separazione dei coniugi, proprietari di un animale familiare, il Tribunale, in mancanza di un accordo tra le parti, a prescindere dal regime di separazione o di comunione dei beni e a quanto risultante dai documenti anagrafici dell’animale, sentiti i coniugi, i conviventi, la prole e, se del caso, esperti di comportamento animale, attribuisce l’affido esclusivo o condiviso dell’animale alla parte in grado di garantirne il maggior benessere. Il tribunale è competente a decidere in merito all’affido di cui al presente comma anche in caso di cessazione della convivenza more uxorio»

Tuttavia questa proposta giace in Parlamento da anni senza avere la giusta considerazione.

Archiviato in:Legge e Giurisprudenza Contrassegnato con: affidamento, animali domestici, assegnazione di animali domestici, cane, gatto, separazione giudiziale, tribunale di Sciacca

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