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Genitore straniero condannato: il diniego all’istanza di permanenza nel territorio italiano nell’interesse del figlio

5 Dicembre 2019 Da Staff Lascia un commento

Il genitore straniero condannato: il diniego all’istanza di permanenza in Italia, del genitore straniero, non può essere fatto derivare automaticamente dall’esistenza di una pronuncia di condanna (Cass. S.U. sent.  15750 del 12 Giugno 2019).

Normativa di riferimento

Nel nostro ordinamento è possibile, per il genitore straniero, richiedere l’autorizzazione alla permanenza in Italia, per periodi di tempo determinati. Tale eventualità nell’interesse dei minori che si trovano sul territorio italiano.

La norma di riferimento è l’art. 31 Testo Unico Immigrazione (TUI). Tale articolo prevede la tutela del minore cresciuto sul suolo italiano. La richiesta è legittimata purché vi siano motivi di salute, educazione e benessere psicofisico del minore.

Come ottenere l’autorizzazione

Ai fini dell’ottenimento dell’autorizzazione è sufficiente provare i danni che deriverebbero da un allontanamento del minore dal territorio italiano, Non essendo necessaria l’esistenza di una situazione di emergenza ai fini dell’ottenimento del beneficio.

Ma se il genitore ha subito una condanna penale?

E’ lecito chiedersi se il genitore straniero condannato possa ottenere l’autorizzazione o meno. Quindi se in tali casi prevalga o no l’interesse del minore. In tali situazioni Il Giudice dovrà effettuare un’attenta valutazione ed un corretto bilanciamento delle contrapposte esigenze. In ogni caso il bilanciamento riguarderà la tutela del minore e la tutela dell’ordine pubblico e/o della sicurezza pubblica.

Soluzioni giurisprudenziali

Una recente pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha stabilito il principio di diritto secondo il quale “il diritto del minore alla presenza della figura genitoriale in Italia non è assoluto. Questo va contemperato con le primarie esigenze di tutela dello Stato. Purtuttavia, la sussistenza di condanne penali non è di per sé ostativa alla permanenza in Italia. La condanna non rappresenta un automatismo ostativo al diniego dell’autorizzazione ex art 31 TUI”.

Dunque la citata pronuncia esclude l’esistenza di qualsiasi automatismo tra l’ottenimento del permesso e la sussistenza di una condanna penale. Nei casi simili di conseguenza  il Giudice dovrà effettuare una dettagliata analisi del caso concreto.

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Figli nati fuori dal matrimonio: se non paghi il mantenimento commetti reato

28 Maggio 2019 Da Studio Legale Arcoleo Lascia un commento

I figli nati fuori dal matrimonio hanno gli stesi diritti di quelli nati in costanza di matrimonio. Per questo l’art. 570 bis c.p. deve ricomprendere la violazione degli obblighi di natura economica anche nei loro confronti. Poco importa se il testo della norma sembrerebbe escludere questi casi. (Cass. Pen., Sez IV, n. 8297 del 25 febbraio 2019)

La Corte di Appello di Firenze, modificando in parte una sentenza del locale Tribunale del 2016, ha rimodulato la pena inflitta ad un imputato. Quest’uomo era colpevole di non aver adempiuto a quanto stabilito dal giudice in ordine al mantenimento dei suoi figli nati fuori dal matrimonio, violando l’art. 3 della L. 54/2006.

Per meglio comprendere il resto della vicenda giudiziaria, è necessario però fare un piccolo excursus legislativo e normativo. La legge 54/2006 contiene “Disposizioni in materia di separazione e affidamento condiviso dei figli“. E l’art. 3, in particolare, dispone che “in caso di violazione degli obblighi di assistenza economica si applica l’articolo 12-sexies della legge 1º dicembre 1970, n. 898“.

Successivamente però, nella primavera 2018, il D. Lgs n. 21 del 1 marzo 2018, ha abrogato entrambe queste norme (art. 3 della L. 54/20016 art. 3 e art. 12-sexies L. 898/1970). Le loro fattispecie sono ora ricomprese in un nuovo articolo del codice penale, l’art. 570 bis.

Questa norma punisce con la reclusione o una salata multa il coniuge che non corrisponde l’assegno (di qualsiasi tipo) dovuto in caso di separazione o divorzio.

Torniamo ora al caso in esame. L’uomo, non concordando con la condanna da parte della Corte d’Appello di Firenze ha dunque deciso di ricorrere in Cassazione. A suo dire infatti, la sua condotta, in seguito all’abrogazione – nelle more del giudizio- delle norme che lo avevano incriminato (art. 3 L. 54/2006 3 art 12-sexies L. 898/1970), non poteva riferirsi al nuovo articolo 570 bis. c.p.

Infatti i suoi figli sono nati da una convivenza mai sfociata in matrimonio. E invece l’art. 570 bis fa riferimento agli inadempimenti di natura economica, da parte del coniuge, in caso di separazione o divorzio. L’art. 570 bis presuppone quindi che a monte vi sia stato un matrimonio, che nel caso di specie invece non era mai avvenuto.

La Suprema Corte però ricorda che in sede civile è stata riconosciuta la piena equiparazione tra i figli nati in costanza di matrimonio ai figli naturali. Equiparazione sancita con l’inserimento dell’art. 337 e ss. del codice civile. Pertanto se i figli hanno uguali diritti, a prescindere che siano nati da genitori sposati o non sposati, questi ultimi hanno gli stessi obblighi. Così come d’altronde sancito dall’art. 30 della Costituzione.

In forza di questi principi dunque, secondo la Cassazione, l’unica interpretazione coerente e costituzionalmente orientata dell’art. 570 bis c.p. è quella della sua applicabilità in caso di violazione degli obblighi di natura economica anche nei riguardi figli nati fuori dal matrimonio. E pertanto ha rigettato il ricorso dell’uomo su questo punto.

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Condannato l’ex che taglia luce e gas nella casa familiare

28 Maggio 2019 Da Studio Legale Arcoleo 2 commenti

Secondo la Cassazione l’ex marito che interrompe la fornitura di luce e gas nella casa familiare assegnata a moglie e figli è penalmente responsabile. (Cassazione Penale, Sez. VI, n. 13407 del 27 marzo 2019)

La Corte d’Appello di Perugia ha confermato la sentenza del Tribunale di Terni che aveva condannato un uomo ai sensi dell’art. 393 c.p.

Questi, infatti, aveva interrotto la fornitura di luce e gas nella casa familiare, dove, a seguito di separazione, vivevano la moglie e i figli.

L’uomo aveva più volte chiesto alla ex di fare la voltura delle utenze, intestate ad una società di cui era amministratore. Di fronte all’inerzia della donna ha provveduto lui stesso al distacco delle forniture, lasciando così la ex e figli senza luce e gas.

L’art. 393 del codice penale punisce con la reclusione fino ad un anno chi, al fine di esercitare un preteso diritto, non ricorre al giudice, ma si fa ragione da sé utilizzando violenza o minaccia sulle persone.

L’uomo ha dunque deciso di ricorrere in Cassazione. Tra le altre cose sosteneva di aver agito nella convinzione di tutelare un suo diritto. Infatti non era tenuto al pagamento delle bollette. E la decisione di interrompere le forniture era necessaria per ovviare all’inerzia della ex.

Tuttavia la Cassazione ha precisato che la tutela del preteso diritto è nucleo essenziale del reato ex art, 393 c.p.. Di conseguenza, non può essere invocato come scriminante, cioè come giustificazione che esclude il reato. In questo caso poi, l’intervento del giudice avrebbe tutelato il preteso diritto senza necessità di “un’azione violenta” dell’uomo.

Per questo motivo (ed altri) la Cassazione non ha ammesso il ricorso dell’uomo e ha confermato la condanna.



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