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genitore sociale

Due papà e un utero in affitto: in Italia non si può

15 Maggio 2019 Da Studio Legale Arcoleo Lascia un commento

Due papà per due bebè : in Italia si può? Secondo le Sezioni Unite non può esservi rapporto di filiazione tra il bambino nato all’estero da “utero in affitto” e il genitore “sociale”. Anche se il giudice straniero ha riconosciuto questo rapporto. A meno che il genitore sociale non ricorra all’adozione in casi particolari. (Cassazione Sez. Unite n. 12193/2019)

Due uomini italiani, regolarmente sposati all’estero, per coronare il loro sogno di diventare genitori sono ricorsi, in Canada, alla pratica dell'”utero in affitto“. Una donna ha messo a disposizione gli ovociti, un’altra ha portato avanti la gravidanza. Il seme utilizzato proveniva da uno dei componenti della coppia omosessuale.

Chi sono i genitori di questi bambini? Sembra un rompicapo!

La Corte di Giustizia dell’Ontario, in prima battuta, ha ricosciuto la genitorialità solo al padre biologico. Ha escluso così che anche la gestante dovesse essere riconosciuta come genitore. Rientrati in Italia, i due uomini hanno ottenuto il riconoscimento di questo provvedimento da parte del Comune di Trento. Dunque, sull’atto di nascita dei minori era indicato un solo genitore: il papà biologico.

Nella quotidianità però questi bambini avevano due papà! Entrambi, infatti, fin dalla nascita avevano assunto questo ruolo, riconosciutogli non solo dai bimbi, ma anche dagli amici, dai familiari e dai colleghi.

La coppia si è dunque rivolta una seconda volta alla Corte di Giustizia dell’Ontario, chiedendo che fosse riconosciuta la genitorialità anche al “papà sociale”. Il giudice canadese ha accolto la richiesta. Ma questa volta il Comune di Trento si è rifiutato di modificare gli atti di nascita indicando anche l’altro uomo come genitore.

Così la questione è arrivata all’attenzione della giustizia italiana. In particolare, la Corte di Appello di Trento, investita della causa, ha accolto la richiesta dei due papà. A suo avviso infatti non si ravvisava violazione dell’ordine pubblico nazionale. Inoltre il riconoscimento del provvedimento straniero avrebbe tutelato l’interesse dei minori al mantenimento dello status di figli. Poco importa, quindi, se è stato violato il divieto di procreazione assistita vigente in Italia.

Data la delicatezza e la rilevanza degli interessi coinvolti il Sindaco di Trento e il Ministero dell’Interno hanno impugnato il provvedimento della Corte territoriale.

La Suprema Corte, a Sezioni Unite si è dunque pronunciata su questo interrogativo di ordine etico. A suo avviso i giudici di merito avevano valutato in maniera errata la circostanza.

Infatti, il divieto alla maternità surrogata, in Italia, trova giustificazione nella tutela della dignità della gestante e dell’istituto dell’adozione.

Quindi, in Italia, non si può trascrivere il provvedimento straniero che riconosce il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero da maternità surrogata e il genitore sociale.

Tuttavia la Cassazione ha aggiustato il tiro e ha trovato una soluzione che tuteli anche l’interesse del minore. E ha previsto che in casi di questo genere il rapporto di filiazione possa essere riconosciuto mediante il ricorso all’istituto dell’adozione in casi particolari (art. 44 L. 184/1983).

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Archiviato in:Legge e Giurisprudenza Contrassegnato con: atto di nascita, Canada, Comune, coppia omosessuale, due papà, famiglia arcobaleno, genitore d'intenzione, genitore sociale, riconoscimento del provvedimento straniero, trascrizione, utero in affitto

Fecondazione eterologa: l’importanza del genitore sociale anche contro la biologia.

21 Marzo 2019 Da Studio Legale Arcoleo Lascia un commento

Fecondazione eterologa: la revoca del consenso da parte del marito non può sopraggiungere se l’ovulo è stato già fecondato. (Cass. Civ. n. 30294/2017)

Abbiamo già parlato della figura del genitore sociale, anche se con riferimento alle famiglie omosessuali (leggi qui). La Cassazione, con la sentenza in oggetto, ribadisce l’importanza di questa figura. Anche a scapito del dato biologico. Ma questa volta con riferimento ai figli nati da fecondazione eterologa.

La fecondazione eterologa è una forma di procreazione medicalmente assistita. Si dice “eterologa” perchè uno o entrambi i gameti utilizzati per la formazione dell’embrione non appartengono ai membri della coppia. Si differenzia dalla fecondazione omologa, dove gli spermatozoi e gli ovociti usati appartengono invece alla coppia.  Attualmente la L. n. 40 del 2004 disciplina entrambi questi tipi di fecondazione. Ma non è stato sempre così.

Infatti al momento della sua emanazione la legge n. 40/2004 vietava la pratica della fecondazione eterologa in Italia. Pratica comunque non contestata fino a quel momento. La legge del 2004 trovava giustificazione nel voler assicurare al minore una famiglia con il suo stesso patrimonio genetico.

Quindi, dal 2004, e per circa 10 anni, in Italia non si è praticata la fecondazione eterologa. Le coppie che volevano ricorrervi dovevano dunque recarsi all’estero. Se da un lato la legge italiana vietava l’inseminazione eterologa, dall’altro comunque ne disciplinava gli effetti, al fine di tutelare il nato.

Ma nel 2014 la Corte Costituzionale (con sentenza n. 162/2014) ha dichiarato l’incostituzionalità del divieto alla fecondazione eterologa contenuto nella L. 40/2004. La pronuncia riammette dunque il ricorso in Italia alla fecondazione eterologa in casi di sterilità o infertilità assolute e irreversibili. E dunque in tutti quei casi in cui la coppia non possa proficuamente ricorrere alla fecondazione omologa.

La fecondazione eterologa riapre così il dibattito sulla binomio genitore biologico/donatore e genitore sociale. La Suprema Corte, nella sentenza che andremo ad esaminare, riconosce una forte importanza alla figura del genitore sociale. Ma partiamo dai fatti.

Un uomo ed una donna italiani si recano  in Spagna, per sottoporsi alla fecondazione eterologa. Entrambi prestano il proprio consenso a che l’iter per la fecondazione abbia inizio. Ma, ad un certo punto della procedura medica, il marito ci ripensa. Secondo la struttura ospedaliera spagnola quella revoca del consenso arriva troppo tardi. La fecondazione dell’ovulo infatti era già avvenuta, e l’impianto era programmato da lì a poche ore. Non c’era altra soluzione che procedere all’ impianto dell’ovulo fecondato nell’ utero della donna. La gravidanza attecchisce e il bambino nasce in Italia.

Allora il marito cita in giudizio sia la madre del bambino che quest’ultimo (ovviamente in persona del curatore speciale). E chiede che i Giudici dichiarino che lui non è il padre del bambino. La richiesta si fondava sull’ assunto che biologicamente il neonato non era suo figlio, in quanto concepito mediante fecondazione eterologa. E quindi con l’uso di gameti estranei alla coppia.  Tale richiesta viene rigettata in tutti e tre i gradi di giudizio.

Con questa sentenza la Suprema Corte mette dei punti fermi su alcune questioni fondamentali.

In primo luogo scioglie un nodo preliminare. E cioè che in questo giudizio la legge applicabile è quella italiana, anche se la fecondazione eterologa si è svolta in Spagna. Infatti la coppia è italiana, ed italiano è il bambino, in quanto nato nel nostro Paese.

In secondo luogo la Cassazione ricorda che la fecondazione eterologa è riconosciuta in Italia, e per questo assimilata a quella omologa nelle norme che la disciplinano. Anche in materia di consenso. In particolare la Legge 40/2004 sancisce che in caso di procreazione medicalmente assistita (tanto omologa, quanto eterologa), l’uomo può revocare il suo consenso fino a che non avvenga la fecondazione dell’ovulo. Dopo, il consenso non è revocabile. Quindi la Cassazione conferma che, nel caso in oggetto, la revoca del consenso era tardiva.

Ma la Suprema Corte si spinge anche oltre. Ed afferma che la revoca del consenso successiva alla fecondazione dell’ovulo, non è compatibile con la tutela costituzionale degli embrioni. 

E vi è di più. Secondo la Cassazione e la Corte Costituzionale, il disconoscimento di paternità successivo al consenso priverebbe il bambino di una figura genitoriale. Che vuol dire privare un minore di un rapporto affettivo ed assistenziale fondamentale per la sua crescita. La Cassazione dunque stabilisce che, in casi come questi, la verità biologica non è un valore costituzionale. E deve cedere il passo alla verità legale.

 Ancora una volta la Suprema Corte riconosce l’importanza di una forma di genitorialità più moderna. Quella del genitore sociale. Dove l’aggettivo “sociale” serve proprio per distinguerla da quella biologica. Dal punto di vista giuridico, la genitorialità sociale non ha alcun riconoscimento. Ma questo crea uno scollamento tra la legge e la realtà. Si pensi alle famiglie “ricomposte”, cioè quelle dove convivono due partner con i figli nati dalle loro precedenti unioni sentimentali. O alle famiglie omosessuali. O a quelle che hanno fatto ricorso, come in questo caso, alla fecondazione eterologa.

Nella maggior parte dei casi la genitorialità sociale si basa esclusivamente sul legame affettivo tra l’adulto ed il bambino. E non crea nessun obbligo giuridico tra i due. In caso di fecondazione eterologa però la situazione appare un po’ più complessa.

Prestando il consenso, i genitori si assumono la “responsabilità della procreazione”. Ed il consenso rappresenta quello che è il riconoscimento nei casi di genitorialità biologica. Il consenso infatti non serve solo a dare l’autorizzazione all’ intervento chirurgico, ma anche ad identificare la paternità e la maternità.

Dunque, nei casi di fecondazione eterologa, la figura del genitore sociale non è importante solo per assicurare una bigenitorialità affettiva al minore, ma una bigenitorialità sostanziale. In quanto, in questi casi, il genitore sociale ha comunque degli obblighi giuridici e di mantenimento verso il nascituro.

Archiviato in:Legge e Giurisprudenza Contrassegnato con: disconoscimento di paternità, fecondazione assistita, fecondazione eterologa, genitore sociale, revoca del consenso

Adozione coparentale e famiglie omosessuali: il mancato raggiungimento dello status unico di Figlio.

11 Febbraio 2019 Da Studio Legale Arcoleo Lascia un commento

Un focus sulla tutela giuridica acquisita dal figlio minorenne quando la madre sociale, compagna della madre biologica, ottiene l’adozione in casi particolari.

L’adozione coparentale è una delle quattro tipologie di adozione in casi particolari declinata nell’art. 44, comma 1, lettera d) della legge n. 184/1983. Si tratta di quei casi in cui la madre sociale (ossia la madre non biologica) adotta il figlio della compagna (madre biologica).

La lettera d) venne inserita nel 2001 dalla legge n. 149, che modificava la legge sulle adozioni per dare copertura giuridica a situazioni in cui tra il bambino e la figura adulta di riferimento nascevano legami significativi, la cui interruzione avrebbe turbato gravemente il bambino.

La chiave interpretativa della norma e la sua ratio è l’”interesse superiore del bambino”, perciò tale adozione è possibile, seguendo una procedura semplificata, a condizione però che il Tribunale verifichi in maniera approfondita se effettivamente l’adozione realizza il superiore interesse del minore.

Per le coppie eterosessuali è ormai pacifica la possibilità dell’adozione del figlio del/lla convivente o del coniuge da parte dell’altro/altra quando questi abbia un rapporto ormai consolidato con il bambino di cui da tempo si prende cura. Lo stesso non accade quando l’adozione del bimbo viene richiesta dal genitore sociale della coppia omosessuale.

La recente Riforma Cirinnà, l. n. 76/2016, non prevede espressamente tale tipologia di adozione per le coppie omosessuali anche se possiamo sottolineare la formulazione della clausola di riserva all’interno del comma 20 art. 1:

 “[…] salvo quanto previsto e CONSENTITO in materia di adozione dalle norme vigenti”

Quindi la legge, che appare forse pleonastica, in realtà vuole significare che è salvo non solo quanto previsto dalle norme in materia di adozione, ma, anche quanto la giurisprudenza, sia di legittimità, sia di merito, ha stabilito interpretando le norme stesse, dando loro nuove soluzioni alle nuove esigenze di una società in rapido mutamento culturale, e sanando un vuoto legislativo a causa e del quale non è ammissibile che il minore, il soggetto più debole, rimanga privo di tutela e il suo interesse venga violato.

Riportando qui le parole della Corte d’Appello di Napoli, sent. 165/2018:

“In forza di un tale pur ambiguo inciso finale, l’interpretazione evolutiva dell’art. 44, 1°comma lett. D), così come le altre aperture alla omogenitorialità, in forza del diritto internazionale privato (…) hanno conservato valore (e infatti sono state ribadite ed estese) anche sotto l’impero della nuova legge”

Purtroppo la Legge Cirinnà manca quasi totalmente della parola “famiglia” e ha dovuto privarsi della normazione esplicita dell’adozione da parte di coppie omosessuali perché stracciata, dopo essere stata invece scritta, dalla parte di parlamento che ammette un solo significato, quello tradizionale, di “famiglia” e quindi di rapporto genitori (etero coniugati) e figli.

L’apertura alla tutela giuridica del minore figlio di coppia omosessuale si è avuta per la prima volta nel 1986 quando la Corte Costituzionale, tenendo come punto fermo del suo ragionare l’art. 3 della costituzione, recitava proprio in riferimento all’art. 44, comma 1, lett. D) legge 184/83: “L’esigenza di adeguata considerazione di legami di fatto instauratisi trova nella nuova normativa un riconoscimento tanto penetrante da indurre il legislatore a derogare in alcuni casi ad un rapporto di convivenza e di coniugio tra gli affidatari”.

Il Tribunale di Roma nel 30 luglio 2014, riteneva applicabile l’adozione in casi particolari della lettere citata D) alle coppie omosessuali consentendo l’adozione del figlio biologico della partner alla madre sociale convivente, poiché legata da stabile vincolo affettivo al minore. La sentenza si faceva forte di quanto stabilito dalla Corte europea Diritti dell’uomo che con pronuncia del 13 febbraio 2013 stabiliva che qualora uno stato contraente contempli l’istituto dell’adozione del figlio del partner a favore delle coppie conviventi di sesso opposto, “il principio di non discriminazione fondata sull’orientamento sessuale impone la sua estensione alle coppie formate da persone dello stesso sesso”.

L’adozione cd. “mite” era stata valorizzata, con riferimento all’Italia, da Corte Europea dei diritti dell’uomo il 21 gennaio 2014 nel caso Z. c. Italia.

Dopo tali pronunce ne risulta che una lettura dell’art. 44, comma 1, lett. d) che escludesse dalla possibilità di ricorrere all’istituto dell’adozione in casi particolari le coppie omosessuali in ragione dell’orientamento sessuale si porrebbe in contrasto con gli artt. 14 e 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), su cui le sopraddette pronunce si fondano. Ciò poiché, come chiarito dalle sentenze costituzionali 348 e 349/2007 e 317/2009, l’art. 117, comma 1, della Costituzione opera come “rinvio mobile” alle disposizioni della CEDU (è parametro interposto del giudizio di costituzionalità) nella interpretazione che ne dà la Corte Edu e che acquistano così titolo di fonti interposte e vanno ad integrare il parametro costituzionale di riferimento. Nel rispetto dei principi costituzionali, spetta quindi al giudice ordinario il compito di operare una “interpretazione convenzionalmente orientata” delle norme nazionali. Qualora questa via non fosse percorribile, questi dovrebbe sollevare la questione di legittimità costituzionale innanzi alla Corte per contrasto con l’art. 117, comma 1, della Costituzione. La Corte Costituzionale attribuisce, perciò, ai giudici nazionali il dovere di “leggere” la norma nazionale muovendo verso un’interpretazione che sia conforme alle disposizioni della CEDU, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo.

Secondo la Corte di Strasburgo la durata della relazione con il bambino è un fattore chiave per il riconoscimento della vita familiare, quindi della configurazione di un rapporto di filiazione tutelabile.

Il Tribunale di Roma ha reiteratamente confermato il suo orientamento nel 2015 e nel 2016. In tal senso anche altri Tribunali per i minorenni, come il TM Bolognese, 6 luglio 2017). Vi sono state anche voci dissenzienti, Torino, Milano, Napoli, ma che sono state poi riformate in conformità al nuovo indirizzo Romano dalle rispettive Corti di Appello.

La “correttezza” dell’orientamento romano è stato sancito dalla suprema corte, Cass. 22 giugno 2016, n. 12962. Stesso orientamento è stato adottato dalla recente giurisprudenza della Corte di Appello di Napoli, che con sentenza n.165/2018 ha disposto l’adozione “mite”, ossia in casi particolari, del minore da parte della madre sociale dello stesso in considerazione del suo superiore e preminente interesse.

La biologia non può prevalere sulla biografia.

Nel 2012 con l. 219 si ha la riforma della filiazione, completata con decreto nel 2013, per cui si è raggiunta l’unicità dello status di figlio.

Ma l’unicità di tutela giuridica per tutti i figli non è stata raggiunta. Infatti l’art. 55 della legge n. 184783 dispone applicarsi all’adozione in casi particolari, quanto agli effetti, le norme relative all’adozione dei maggiorenni. Perciò conseguentemente i bambini adottati con l’adozione in casi particolari restano esclusi dal legame di parentela con i membri della famiglia dei genitori adottivi. Dunque il figlio adottivo della madre sociale non vedrebbe tutelati i diritti derivanti dal rapporto di parentela che invece si dovrebbe instaurare tra lui e i parenti della madre. Al bambino non verrà riconosciuto alcun rapporto di parentela in linea retta o collaterale tra lui e i parenti della madre. La nuova formulazione dell’art. 315 bis c.c. apparentemente rende tutti “figli” , ma in realtà non tiene conto ed esclude i figli adottivi dei casi particolari e quindi del genitore sociale.

Al minore viene negata perciò metà famiglia, ossia tutta la parentela che non può acquisire dalla parte della madre sociale. I bambini adottati con l’adozione in casi particolari restano esclusi dal legame di parentela con i membri della famiglia dei genitori adottivi.

Questa condizione appare sommamente ingiusta, e comunque contraria alla portata innovatrice della riforma introdotta dalla legge n. 219/2012, che consiste proprio nella creazione di un unico status figlio-parente comprensivo di tutte le filiazioni biologiche e di tutte le filiazioni adottive, incluse quelle nei casi particolari. Si aggiunga che il paragone della disciplina dell’adozione dei maggiorenni a quella dell’adozione in casi particolari appare sommamente incongruo: la prima attiene a scopi di tipo patrimoniale e successorio, perché intende assicurare a colui che ne è privo una discendenza, la trasmissione del nome, del patrimonio e della tradizione familiare; la seconda ha finalità di carattere personale e affettivo-relazionale, in quanto riguarda il soggetto minore di età, debole per definizione. L’adozione in casi particolari è peraltro revocabile e l’adottato è escluso dalla rete parentale del genitore adottivo. Si potrebbe allora prevedere, che il minore adottato ex art. 44 della richiamata legge n. 184/1983, parallelamente con la previsione esistente per l’adozione piena ex art. 25 della medesima legge, possa, compiuti i quattordici anni e rappresentato da un curatore speciale, esprimere il proprio consenso alla conversione della sua adozione in quella piena, consentendovi, ove ancora in vita, i genitori biologici o il genitore superstite.

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