Un focus sulla tutela giuridica acquisita dal figlio minorenne quando la madre sociale, compagna della madre biologica, ottiene l’adozione in casi particolari.
L’adozione coparentale è una delle quattro tipologie di adozione in casi particolari declinata nell’art. 44, comma 1, lettera d) della legge n. 184/1983. Si tratta di quei casi in cui la madre sociale (ossia la madre non biologica) adotta il figlio della compagna (madre biologica).
La lettera d) venne inserita nel 2001 dalla legge n. 149, che modificava la legge sulle adozioni per dare copertura giuridica a situazioni in cui tra il bambino e la figura adulta di riferimento nascevano legami significativi, la cui interruzione avrebbe turbato gravemente il bambino.
La chiave interpretativa della norma e la sua ratio è l’”interesse superiore del bambino”, perciò tale adozione è possibile, seguendo una procedura semplificata, a condizione però che il Tribunale verifichi in maniera approfondita se effettivamente l’adozione realizza il superiore interesse del minore.
Per le coppie eterosessuali è ormai pacifica la possibilità dell’adozione del figlio del/lla convivente o del coniuge da parte dell’altro/altra quando questi abbia un rapporto ormai consolidato con il bambino di cui da tempo si prende cura. Lo stesso non accade quando l’adozione del bimbo viene richiesta dal genitore sociale della coppia omosessuale.
La recente Riforma Cirinnà, l. n. 76/2016, non prevede espressamente tale tipologia di adozione per le coppie omosessuali anche se possiamo sottolineare la formulazione della clausola di riserva all’interno del comma 20 art. 1:
“[…] salvo quanto previsto e CONSENTITO in materia di adozione dalle norme vigenti”
Quindi la legge, che appare forse pleonastica, in realtà vuole significare che è salvo non solo quanto previsto dalle norme in materia di adozione, ma, anche quanto la giurisprudenza, sia di legittimità, sia di merito, ha stabilito interpretando le norme stesse, dando loro nuove soluzioni alle nuove esigenze di una società in rapido mutamento culturale, e sanando un vuoto legislativo a causa e del quale non è ammissibile che il minore, il soggetto più debole, rimanga privo di tutela e il suo interesse venga violato.
Riportando qui le parole della Corte d’Appello di Napoli, sent. 165/2018:
“In forza di un tale pur ambiguo inciso finale, l’interpretazione evolutiva dell’art. 44, 1°comma lett. D), così come le altre aperture alla omogenitorialità, in forza del diritto internazionale privato (…) hanno conservato valore (e infatti sono state ribadite ed estese) anche sotto l’impero della nuova legge”
Purtroppo la Legge Cirinnà manca quasi totalmente della parola “famiglia” e ha dovuto privarsi della normazione esplicita dell’adozione da parte di coppie omosessuali perché stracciata, dopo essere stata invece scritta, dalla parte di parlamento che ammette un solo significato, quello tradizionale, di “famiglia” e quindi di rapporto genitori (etero coniugati) e figli.
L’apertura alla tutela giuridica del minore figlio di coppia omosessuale si è avuta per la prima volta nel 1986 quando la Corte Costituzionale, tenendo come punto fermo del suo ragionare l’art. 3 della costituzione, recitava proprio in riferimento all’art. 44, comma 1, lett. D) legge 184/83: “L’esigenza di adeguata considerazione di legami di fatto instauratisi trova nella nuova normativa un riconoscimento tanto penetrante da indurre il legislatore a derogare in alcuni casi ad un rapporto di convivenza e di coniugio tra gli affidatari”.
Il Tribunale di Roma nel 30 luglio 2014, riteneva applicabile l’adozione in casi particolari della lettere citata D) alle coppie omosessuali consentendo l’adozione del figlio biologico della partner alla madre sociale convivente, poiché legata da stabile vincolo affettivo al minore. La sentenza si faceva forte di quanto stabilito dalla Corte europea Diritti dell’uomo che con pronuncia del 13 febbraio 2013 stabiliva che qualora uno stato contraente contempli l’istituto dell’adozione del figlio del partner a favore delle coppie conviventi di sesso opposto, “il principio di non discriminazione fondata sull’orientamento sessuale impone la sua estensione alle coppie formate da persone dello stesso sesso”.
L’adozione cd. “mite” era stata valorizzata, con riferimento all’Italia, da Corte Europea dei diritti dell’uomo il 21 gennaio 2014 nel caso Z. c. Italia.
Dopo tali pronunce ne risulta che una lettura dell’art. 44, comma 1, lett. d) che escludesse dalla possibilità di ricorrere all’istituto dell’adozione in casi particolari le coppie omosessuali in ragione dell’orientamento sessuale si porrebbe in contrasto con gli artt. 14 e 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), su cui le sopraddette pronunce si fondano. Ciò poiché, come chiarito dalle sentenze costituzionali 348 e 349/2007 e 317/2009, l’art. 117, comma 1, della Costituzione opera come “rinvio mobile” alle disposizioni della CEDU (è parametro interposto del giudizio di costituzionalità) nella interpretazione che ne dà la Corte Edu e che acquistano così titolo di fonti interposte e vanno ad integrare il parametro costituzionale di riferimento. Nel rispetto dei principi costituzionali, spetta quindi al giudice ordinario il compito di operare una “interpretazione convenzionalmente orientata” delle norme nazionali. Qualora questa via non fosse percorribile, questi dovrebbe sollevare la questione di legittimità costituzionale innanzi alla Corte per contrasto con l’art. 117, comma 1, della Costituzione. La Corte Costituzionale attribuisce, perciò, ai giudici nazionali il dovere di “leggere” la norma nazionale muovendo verso un’interpretazione che sia conforme alle disposizioni della CEDU, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo.
Secondo la Corte di Strasburgo la durata della relazione con il bambino è un fattore chiave per il riconoscimento della vita familiare, quindi della configurazione di un rapporto di filiazione tutelabile.
Il Tribunale di Roma ha reiteratamente confermato il suo orientamento nel 2015 e nel 2016. In tal senso anche altri Tribunali per i minorenni, come il TM Bolognese, 6 luglio 2017). Vi sono state anche voci dissenzienti, Torino, Milano, Napoli, ma che sono state poi riformate in conformità al nuovo indirizzo Romano dalle rispettive Corti di Appello.
La “correttezza” dell’orientamento romano è stato sancito dalla suprema corte, Cass. 22 giugno 2016, n. 12962. Stesso orientamento è stato adottato dalla recente giurisprudenza della Corte di Appello di Napoli, che con sentenza n.165/2018 ha disposto l’adozione “mite”, ossia in casi particolari, del minore da parte della madre sociale dello stesso in considerazione del suo superiore e preminente interesse.
La biologia non può prevalere sulla biografia.
Nel 2012 con l. 219 si ha la riforma della filiazione, completata con decreto nel 2013, per cui si è raggiunta l’unicità dello status di figlio.
Ma l’unicità di tutela giuridica per tutti i figli non è stata raggiunta. Infatti l’art. 55 della legge n. 184783 dispone applicarsi all’adozione in casi particolari, quanto agli effetti, le norme relative all’adozione dei maggiorenni. Perciò conseguentemente i bambini adottati con l’adozione in casi particolari restano esclusi dal legame di parentela con i membri della famiglia dei genitori adottivi. Dunque il figlio adottivo della madre sociale non vedrebbe tutelati i diritti derivanti dal rapporto di parentela che invece si dovrebbe instaurare tra lui e i parenti della madre. Al bambino non verrà riconosciuto alcun rapporto di parentela in linea retta o collaterale tra lui e i parenti della madre. La nuova formulazione dell’art. 315 bis c.c. apparentemente rende tutti “figli” , ma in realtà non tiene conto ed esclude i figli adottivi dei casi particolari e quindi del genitore sociale.
Al minore viene negata perciò metà famiglia, ossia tutta la parentela che non può acquisire dalla parte della madre sociale. I bambini adottati con l’adozione in casi particolari restano esclusi dal legame di parentela con i membri della famiglia dei genitori adottivi.
Questa condizione appare sommamente ingiusta, e comunque contraria alla portata innovatrice della riforma introdotta dalla legge n. 219/2012, che consiste proprio nella creazione di un unico status figlio-parente comprensivo di tutte le filiazioni biologiche e di tutte le filiazioni adottive, incluse quelle nei casi particolari. Si aggiunga che il paragone della disciplina dell’adozione dei maggiorenni a quella dell’adozione in casi particolari appare sommamente incongruo: la prima attiene a scopi di tipo patrimoniale e successorio, perché intende assicurare a colui che ne è privo una discendenza, la trasmissione del nome, del patrimonio e della tradizione familiare; la seconda ha finalità di carattere personale e affettivo-relazionale, in quanto riguarda il soggetto minore di età, debole per definizione. L’adozione in casi particolari è peraltro revocabile e l’adottato è escluso dalla rete parentale del genitore adottivo. Si potrebbe allora prevedere, che il minore adottato ex art. 44 della richiamata legge n. 184/1983, parallelamente con la previsione esistente per l’adozione piena ex art. 25 della medesima legge, possa, compiuti i quattordici anni e rappresentato da un curatore speciale, esprimere il proprio consenso alla conversione della sua adozione in quella piena, consentendovi, ove ancora in vita, i genitori biologici o il genitore superstite.