Il reato di maltrattamenti in famiglia si integra non solo in caso di violenze fisiche. Ma anche in tutti I casi di violenza psicologica ed umiliazione del partner. Esempio ne è portare l’amante a vivere accanto alla moglie (Cass. Pen 35677/2019).
Il fatto
Una donna ha sporto denuncia per maltrattamenti nei confronti del marito. Dal 2009, infatti, ha subito una serie innumerevole di vessazioni. L’uomo le aveva riservato violenze fisiche e minacce in maniera abituale. Le aveva sottratto 175.000 euro, ricavo della vendita di un immobile della donna. Aveva imposto a lei e al figlio privazioni economiche, tanto da costringerli ad andare a mangiare alla Caritas mentre lui conduceva un’esistenza agiata. Da ultimo, poi, l’uomo aveva portato la sua amante ad abitare nello stesso palazzo in cui moglie e figlio vivevano.
Sia il Tribunale di Enna che la Corte d’Appello di Caltanissetta (seppur riducendogli la pena) hanno condannato l’uomo per maltrattamenti in famiglia, ai sensi dell’art. 572 c.p.
L’uomo ha fatto ricorso in Cassazione sperando di “alleggerire la sua posizione”. Prima di tutto ha fatto presente come la moglie non fosse stata in grado di riferire nessun episodio specifico di maltrattamenti. E poi ha sostenuto che con il suo comportamento non avrebbe umiliato la moglie. Infatti, a suo dire, non aveva imposto a questa una convivenza con l’amante, in quanto gli appartamenti, pur facenti parte dello stesso palazzo erano autonomi.
La decisione della Cassazione
Gli Ermellini hanno ritenuto però inammissibile il ricorso dell’uomo. Interessante la posizione assunta dalla Cassazione in merito alla convivenza moglie/amante.
Secondo un costante insegnamento della Suprema Corte, infatti, il reato di maltrattamenti in famiglia non consiste solo in percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni imposte alla vittima. Ma si integra ogni qual volta vengano compiuti atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che causano una sofferenza morale. Tra queste ipotesi, secondo gli Ermellini, rientrerebbe proprio il costringere la moglie a sopportare la presenza di una concubina.
La Cassazione ha anche specificato che per configurarsi il reato di maltrattamenti in famiglia non è necessaria l’attuale convivenza tra vittima e carnefice, se tra i due vi è, o vi è stato, un legame di tipo matrimoniale o di affiliazione.
Quindi, la separazione legale, e ancor più una semplice separazione di fatto, non fanno venir meno il dovere al reciproco rispetto e all’assistenza morale e materiale.
Per tutti questi motivi l’uomo, oltre a vedersi confermata la condanna di secondo grado ha dovuto pagare le spese processuali e anche 2.000 euro alla Cassa delle ammende a causa dell’inammissibilità del suo ricorso.
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