E gli innovativi profili sanzionatori adottati dalla recente giurisprudenza
Negli ultimi tempi si è assistito ad un crescendo di provvedimenti d’urgenza sperimentati da alcuni Tribunali per i Minorenni (soprattutto in quelle aree in cui è più diffusa la criminalità organizzata): si tratta in particolare di provvedimenti mirati a togliere i figli minori alle famiglie radicalmente coinvolte nella criminalità organizzata, così sottraendoli ad un altrimenti ineluttabile destino mafioso, affidandoli al servizio sociale in comunità fuori dal territorio di origine al fine di dare loro la possibilità di conoscere un modo diverso di vivere e di pensare.
Tra i Tribunali in prima linea vi è il Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria che sta “sperimentando” alcuni provvedimenti di natura civilistica, adottati anche “d’urgenza” e “inaudita altera parte”, differendo il contraddittorio con le famiglie-controparti ad un secondo momento, in presenza di emergenze improcrastinabili e di rischi per l’integrità psico-fisica dei minori da tutelare.
Le conseguenze che un provvedimento simile è destinato a creare nelle famiglie di ‘ndrangheta, nelle cosche siciliane di cosa nostra e nei clan di camorra sono facilmente intuibili.
Non si tratta ovviamente della decadenza dalla potestà genitoriale che in genere viene dichiarata dai giudici come pena accessoria ad una sentenza definitiva di condanna del boss per associazione mafiosa o per altri gravi reati ad essa connessi.
Si tratta di un intervento molto più anticipato che il Tribunale ha perseguito ricorrendo a norme quali disposto congiunto dell’art. 25 R.D.L. n. 1404 del 1934, all’art. 330 c.c. ed alla Convenzione di New York laddove si afferma il principio che “la famiglia deve educare il minore ai principi di pace, tolleranza, dignità e solidarietà”.
Nelle motivazioni i giudici giustificano il provvedimento, ritenendolo l’unica soluzione per sottrarre il minore “a un destino ineluttabile e nel contempo consentirgli di sperimentare contesti culturali e di vita alternativi a quello deteriore di provenienza”, nella speranza “possa affrancarsi dai modelli parentali sinora assimilati”.
E’ evidente che i provvedimenti in questione, che pur hanno creato numerose critiche (spesso frutto di mera demagogia), non possono essere generalizzati ma letti e valutati in relazione al singolo caso concreto.
In genere si tratta di provvedimenti concernenti minori cresciuti in ambienti familiari gravemente intriso dall’appartenenza alla criminalità organizzata (tanto che numerosi familiari risultano detenuti e condannati per omicidio e reati di mafia). L’ambiente familiare ha avuto una negativa influenza sulla crescita dei minori, tanto che gli stessi (per come si legge nei provvedimenti) hanno già manifestato sintomi di pericolosità sociale, grave rischio di devianza, irregolarità nella condotta e nello stile di vita (frequentazioni con pregiudicati, reiterata assenza scolastica …).
Alla luce di quanto sopra, il provvedimento mira a fornire al minore una seria alternativa e ciò allo scopo di consentire allo stesso “di sperimentare contesti culturali e di vita alternativi a quello deteriore di provenienza”.
Ma il caso più eclatante, anche per i tragici risvolti umani della vicenda, è quello relativo al provvedimento emesso dal Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria il 06.03.12 (e confermato dalla Corte di Appello Sez. 2^ di Reggio Calabria – giudice estensore dott. Antonio Napoli -) riguardante i tre figli minorenni di Maria Concetta Cacciola.
Nel caso specifico la Cacciola, coniugata con un soggetto detenuto e condannato in via definitiva per associazione mafiosa, e che da tempo subiva violenze fisiche e psicologiche da parte dei familiari (genitori e fratello) che le imponevano il rispetto di ferree regole di vita “mafiosa”, aveva deciso di collaborare con la giustizia, denunciando gli stessi familiari (padre e fratello).
I familiari avevano allora intrapreso una serie di pressioni psicologiche nei suoi confronti per indurla a rientrare a Rosarno dalla località protetta ove si trovava e ritrattare le accuse: le minacce rivolte alla Cacciola vertevano principalmente sul fatto che non avrebbe più rivisto i figli.
Dette minacce ebbero l’effetto di far tornare la Cacciola a Rosarno ove venne costretta a registrare un’audiocassetta in cui ritrattava quanto denunciato a carico del padre e del fratello.
Maria Concetta Cacciola decideva poi di togliersi la vita ingerendo acido muriatico.
L’attività di indagine (corroborata anche da intercettazioni ambientali relative ai colloqui in carcere tra i figli della Cacciola ed il loro padre) hanno consentito di accertare che gli stessi minori avevano subito vessazioni allo scopo di indurre la madre alla ritrattazione.